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L'oro di Colombo
terza puntata


Le foto finirono sul tavolo di Maurice. Le guardò e non disse nulla, il tempo scorse lunghissimo. Quelle foto parevano preoccuparlo come se da lì dovessero scaturire mesi di tormenti.
“Dio sa se sono autentiche! Perché vengono da noi? Perché non le vendono al National Geographic?” disse alla fine.
“Dio sa se quella è davvero roba appartenente alla flotta di Francisco de Bobadilla. Neanche loro ne sono sicuri” osservai io.
“Ci devo pensare un po’ su, prima di pubblicare questa roba. Tu intanto rintraccia il belga, e butta giù qualcosa. E io che volevo una rivista pubblicitaria di inserzioni ad uso dei turisti e dei ristorantini chic!” sbottò.
Mi lasciò solo. Frugai nella mia agenda. Sì, era ancora lì, la mia assicurazione subacquea internazionale. Composi il numero verde, che da quelle parti è sempre un ‘1-800.’
“Divers Assist International, Clarissa speaking!”
Sforzandomi di tirar fuori l’accento più fiammingo che potevo, mi qualificai come Willhelm de Groote, fratello di Wilfred.
“Ho saputo che ha avuto un incidente a Silver Bank, e io corso qui, Puerto Plata da Belgio, ma loro già dimesso lui, Mi ha detto che forse, lui Miami! Miami USciA, loro sanno niente qui, sanno niente solo spanish!”
“de Groote, mi ha detto?”
“Sì, Wilfrhreed!”
“Come si scrive?”
Ci volle un po’, il mio accento fiammingo era davvero incomprensibile.
“Silver Bank?” sentii che digitava.
“Scilver Bank è dove incidente. Poi primo ospitale Puerto Platta, poi Miami, USA!”
“E’ iscritto” disse.
“Bingo”, pensai io.
“de Groote, Wilfred... eccolo, Silver Bank... corrisponde. Un attimo che le trovo suo fratello. Vediamo... sì, risulta: General Hospital Ponce de León, Non è a Miami, è a Fort Lauderdale. Le dò il numero.”
Avevo fatto centro. Misi giù e risi forte. Poi chiamai Fort Lauderdale.
“Sono Jean Claude Dupont, della Divers Assist Europe. Sto cercando un nostro assistito, un cittadino belga di nome Wilfred de Groote,, ricoverato per un incidente subacqueo.”
“Un attimo, cerco l’interno della sua stanza.”
Sentii il segnale di libero, poi qualcuno alzò la cornetta.
“Stanza 411, Janet Martinez... posso aiutarla?”
“Vorrei parlare con Wilfred”
“Chi è?”
Rinnovai le mie false credenziali.
“Mi dica innanzitutto in che condizioni versa” dissi.
“E’ ancora semiparalizzato, ha appena riacquistato l’uso del braccio destro, muove appena le gambe, non è un buon quadro, ma per la cartella clinica deve rivolgersi al reparto.”
“No, ce l’abbiamo, volevo solo parlare con lui.”
“Sono Wilfred” disse la voce tremula e biascicata dall’altra parte.
“Puoi raccontarmi come è successo?”
“Ero a 65 metri” disse lui subito.
“Ne sei sicuro?”
“Ero almeno a 65. Il mio computer s’è bloccato durante la discesa. Avevo con me solo una lavagnetta con su delle tabelle di decompressione scritte a mano da loro.”
“E tu hai continuato?”
“Non avevo altra scelta se non quella di stare vicino al mio compagno!”
“Allora da cosa hai capito a quale quota eravate?”
“L’ho capito dai consumi e anche perché a 60 metri vedo tutto come su d’uno schermo mal sintonizzato, mi succede sempre così, è la narcosi non posso sbagliarmi, su di me ha questo effetto a 60 metri spaccati. Ed io ero più giù.”
“Chi era con te, Matt o Craig?”
“Craig.”
“E com’è andata?”
“E’ colpa mia, mi sono allontanato da Craig e mi sono perso. Per cercarlo sono andato in affanno, la mia testa è andata in pappa e sono venuto su dov’ero, mancando la cima di risalita. Nel blu, senza riferimenti né strumenti, sono venuto su troppo veloce!” lo sentii singhiozzare.
“Come stai, Wilfred?”
“Non riesco nemmeno a pisciare da solo che altro vuoi che ti dica?” riattaccò.
L’articolo uscì. Con le foto dei cannoni. Forzai la mano a Maurice, per questo. Avevano bisogno di una campana, stavano ormai cercando in profondità, ci misi anche la storia di Wilfred. Non potevano andare avanti in due in quel modo.
Intanto la situazione ad Haiti stava precipitando, continuavano i massacri. La gente premeva sulle coste dominicane e implorava aiuto ed asilo, raccontavano storie di famiglie intere uccise a bastonate, a colpi di machete dai Ton-ton Makute. Gli americani erano pronti a intervenire.
Dovevo percorrere la costiera. Il mio compito principale non era affatto scrivere, ma raccogliere soldi per la pubblicità e poi buttare giù articoli a pagamento, sponsorizzati. Poi c’erano i veri e propri adverts, le inserzioni ed i coupons per gli sconti e tutto quello che il mondo moderno trapiantato nel vecchio riusciva ad inventarsi per invogliare la gente a spendere e farti passare la voglia di esplorare. Il cliente in questione era a 40 Km dalla redazione, dove stava per sorgere una nuova zona alberghiera. Arrivato al primo villaggio trovai il traffico bloccato. Stava succedendo qualcosa. La strada era assediata da centinaia di camion, auto, motociclette. Una folla immensa spingeva su entrambi i lati della strada costiera. S’udivano i clacson, le grida. Erano tutti vestiti di bianco. La luce era quella totale d’un mezzogiorno terso e senza nuvole.
C’era lui, Peña Gómez. Stava per parlare. Avevo fretta, chiesi al tassista di districarsi dall’ingorgo, ma si voltò verso di me con aria desolata. Seduto all’interno dell’abitacolo mi rassegnai a guardare. Sentii che urlavano più forte, ritmicamente, finché le loro voci si fusero in un unico boato che andava e veniva come un’onda. Centinai di cappellini e di palloncini bianco volarono nel cielo saturo, abbaglianti. La luce, i rumori avevano la solidità del tuono, d’un jet al decollo. Continuai a guardarli, sentendomi subito triste. Speravano, come me, come tutti, in un mondo migliore. Sapevo già come sarebbe andata a finire. Non riuscivo a disconnettere l’idea delle elezioni da quella del tesoro sommerso. Nessuno dei sognatori l’avrebbe avuta vinta, lo sapevo come si sa che sta per arrivare la febbre dopo essere stati in giro nudi. Perché ero così pessimista? Perché ero così europeo da appoggiare tutte le cause perse senza mai credere che vincano?
Al giornale ormai non facevamo altro che raccogliere corrispondenza e altre richieste di sottoscrizione ed ammucchiarle in un faldone che portava il nome della società: “New World Salvage Co. Ltd.”
Un fiume di soldi stava affluendo verso Matt e Craig.
Intanto venne il giorno delle elezioni. Non c’era bisogno di leggere i giornali per capirlo. Vedevi un sacco di gente a spasso col braccio verniciato. Pochi, a Santo Domingo, possedevano documenti personali, così che i votanti, per non farli votare di nuovo, venivano marchiati con l’inchiostro indelebile.
Il famoso video di Peña Gómez che beve il sangue delle galline non andò mai in onda perché non c’era e l’ago della bilancia pendeva verso il Partido Blanco ogni giorno di più. Qualcosa stava per succedere, lo sentivo come un animale con addosso il presentimento di un uragano. Non era un terremoto, che c’era già stato ed era passato leggero e con pochissimi danni, era una sensazione che aveva a che fare con le viscere e coi sogni, coi sogni che non mi ricordavo mai e che non mi lasciavano in pace giorno e notte.
Vedevi camion zeppi di soldati passare a tutta velocità lungo la costiera. Non andavano verso la frontiera con Haiti, come ci si sarebbe aspettato: la maggior parte si dirigevano all’entroterra o a est.
“Sta succedendo qualcosa” disse Juliet. Eravamo sul mio terrazzo, a goderci la brezza fresca dell’oceano. Quella frase, detta da una diplomatica, poteva preludere a chissà quali discorsi. Io, che volevo soltanto avvicinare le mie labbra alle sue, le dissi ciò che pensavo:
“Dite tutti così, ma nessuno racconta per bene 'cosa' sta succedendo.”
“E’ buffo, ma in questo Paese si finisce per vivere di sensazioni” disse lei.
“Sensazioni del tutto irrazionali” la guardai fissa negli occhi. Juliet era il rappresentante legale del Canada nella zona. Aveva occhi scuri e lunghi e membra uguali. Sapevo che nulla l’avrebbe messa in imbarazzo e continuai a fissarla. Se ne accorse.
“Non mi abituerò mai alle notti tropicali” bisbigliò distogliendo lo sguardo.
“Può succedere di tutto in notti così” insinuai.
“L’importante è che non ci si svegli con una pistola puntata alla tempia, allora va tutto bene” disse lei.
“Al massimo posso scordarmi della colazione a letto.”
“Mi spaventa l'idea di svegliarmi con gente in divisa che ti entra in camera urlando. Da queste parti sembra essere uno sport.”
“Dipende dal letto in cui ti trovi.”
“Giornalisti” disse, scoppiando in una fragorosa risata, “non c’è letto più pericoloso di quello d’un giornalista.”
“Io almeno non mi occupo di politica, ma di turismo e di pubblicità!”
La brezza si fece più intensa, divenne forte, poi un bel vento robusto. Pensai al povero pontone laggiù. Chissà se avrebbe retto, ma ormai avevo la mia faccia piantata sull’ombelico di Juliet, al diavolo tutte le altre cose che potevano andar male. In quel preciso momento la pelle tesa di Juliet era l’unica cosa che esisteva, anche se ci vedevo dentro il pontone di Matt e Craig affondare.
Se proprio dovevo esser sincero non sapevo nemmeno come ero capitato laggiù, ma se dovevo guardarmi indietro e intorno, andava bene così. Svegliarsi ricordandosi che ti è capitato qualcosa di buono e che quel qualcosa di buono è ancora lì, non ti fa porre troppe domande su come o se sia giusto che sia andata così.
Alle undici eravamo di nuovo in terrazza con una piña colada. La brezza forte dell’oceano scarmigliava le palme appena sotto. Il cielo era attraversato da nuvole minuscole, teneri batuffoli di cotone, la luce era tagliente come tra i ghiacciai. All’orizzointe sfilava qualcosa.
“Non sono cargo, quelli” disse Juliet “troppo grossi.”
Entrai a prendere il binocolo in casa e glielo passai.
“Sono PORTAEREI!”
“Fammi vedere.”
Erano portaerei e trasporto truppe americani. Andavano ad Haiti.
“Stanno invadendo adesso!” urlò Juliet. Se per lei quella era una novità, immaginatevi per noi miseri mortali.
“Ma cosa vogliono gli americani da Haiti?”
“Quando si muovono è solo per un motivo”
“Petrolio?”
“Bravo, vedo che hai studiato”

“Non sono qui solo per Haiti” disse Maurice indispettito, “sono qui anche per noi. Ancora non si sa come sono andate queste elezioni. Pare che Balaguer abbia perso e il paese rischia di allinearsi con Castro. Questi americani stanno solo approfittando dell’instabilità momentanea di Haiti per cercare di stabilire una una base sull’isola.”
“Perché non da noi, Maurice?”
“Perché siamo alleati storici e non oserebbero minacciarci apertamente! Così sbarcano ad Haiti per ricordarci cosa ci conviene fare. Questi sono i giornali di oggi!”
Come giornalista non valevo un accidenti. Ero all’oscuro di tutto. I titoli parlavano di disordini e sparatorie in tutte le più grandi città. A dieci giorni dalle elezioni ancora non si capiva chi aveva vinto. C’erano stati brogli. Solo la costa nord sembrava essere immune dai tumulti, ma non ci credeva nessuno. Non potevo cancellare dalla mia mente i camion militari, centinaia, migliaia di soldati su e giù per tutta la costiera.
“C’è stata una carneficina a Nagua ieri venti morti, ma non ne parla nessuno” sussurrò Maurice.
“Pensi che qui succederà una rivoluzione?” domandai.
“Anche se fosse? Ieri gli americani sono sbarcati ad Haiti.”
“Insisti a dire che sono qui per noi?”
“Non solo per noi, ma anche per il Silver Bank!” sbottò. La sua risposta mi fece trasalire. Non osai domandare nulla, aspettai che si spiegasse.
“C’è il petrolio sotto al Silver Bank. Adesso lo sai!”
“Tu: come lo sai?”
“Io non lo so bene, ma tu comprati le azioni della Standard Oil e così lo sai anche tu. E’ il modo giusto di sapere certe cose” disse.
“Adesso me la racconti tutta, vera Maurice?”
“No, caro mio, no! Quello che dovevo dirti te l’ho detto. Compra quelle azioni di merda e aspetta che qui si calmi il casino!”
Comprai le azioni, ma non è ancora il momento di dire se la cosa mi giovò, o meno. Accaddero prima un paio di fatti. Uno riguarda una telefonata da Dave, un oceanografo americano, l’altra una visita di Craig.
Procediamo con ordine.

Conoscevo Dave da tempo. Anzi, lo conoscevo da prima che mi stabilissi in pianta stabile in Repubblica Dominicana. A Miami lui s’occupava di pesci e di plancton, io di tutte quelle cose che girano intorno al mare e alle barche. Poi seppi che aveva aperto un diving nella zona, anzi, a cento chilometri da noi, con l’intenzione di creare una biosfera marina, un angolo protetto dove poter studiare le sue amate creaturine ma anche ricavarne anche un po’ di soldi. Un utile con il dilettevole. Mi chiamò in un mattino piovoso, uno dei rari sulla costa atlantica, anche in quella stagione.
“Ho visto le foto dei cannoni sul tuo articolo” disse Dave.
“Mi interessa un tuo parere, vai avanti.”
“Beh, sento il dovere di dirti quello che penso. Secondo me quelle foto non sono buone, sono un falso.”
“Come fai...?”
“Amico mio, ho fatto parecchie immersioni in tutta la zona del Mar dei Caraibi ed una certa esperienza ce l’ho, ma anche questo non vuol dire molto, in fondo. Il punto è che... insomma, mi sembra che quei cannoni siano del ‘700. Nel ‘500 erano più corti e tozzi, inoltre si sarebbero conservati peggio!”
“Dave, ho spiegato nel mio articolo che nessuno era sicuro della loro epoca.”
“L’ho letto bene, il tuo articolo. Ma nessuno mi toglie dalla testa che quei cannoni non vengono da lì. Quelli sono i cannoni del ‘Banco Chinchorro’. Il Banco Chinchorro è in Messico, al confine col Belize!”
“Ne sei sicuro?”
“Ci sono stato tre mesi fa ed ho scattato anch’io delle fotografie. Vuoi vederle?”
Ci misi un po’ a ritrovare la voce, poi riuscii a parlare.
“Passo da te” mormorai.
“Vieni stasera, oggi sarò in barca con dei clienti e domani mattina lo stesso, poi partirò.”
Dovevo pensare. Dovevo fare qualcosa, ma non sapevo cosa. Dovevo parlare, forse, ma con chi? Sogni, maledetti sogni. Era sempre così che andavano a finire. Avevano ragione gli esseri di piombo, anima e corpo? quelli troppo pesanti per riuscire a volare?
Mi incamminai sotto la pioggerella insistente nella vecchia zona residenziale. L’odore penetrante di terra veniva dai giardini delle ville. Non senti odore di resina come da noi, quando piove da quelle parti, ma solo odore di terra e di fiori, quando ci passi accanto. La camicia zuppa cominciava già ad aderirmi al corpo, stavo di nuovo ingrassando. Mi mancava la fatica, solo la fatica. Non mi mancavano le illusioni né le speranze. I soldi, anche, i soldi che avevo buttato mi mancavano. No, non era quello il punto. Il problema ora era dover mostrare ancora la mia faccia in giro, al giornale. Quello. Nulla era ancora sicuro, ripetevo tra me, ancora dovevo vedere le foto e andare fino in fondo. Dave, be' anche lui poteva sbagliarsi, no?
Si, speraci! E quando si sbaglia uno come Dave?
Non mi veniva in mente niente altro che passare da Juliet ed invitarla a bere qualcosa. Ecco l’ufficio di Juliet. La guardia armata mi conosce, mi fa entrare. Che bella villa l’ufficio di Juliet! No? Juliet oggi non c’è? Profumo di fiori.
La spiaggia era deserta. Solo le solite poche facce rubizze di quelli che non riescono stare lontani dal bicchiere neanche alle dieci del mattino. Che razza di posto. Puttanieri, alcolizzati, cacciatori di tesori, truffatori, trafficanti, sognatori... Per essere là doveva esserci anche in me qualcosa che veramente non andava.

Fine terza puntata. Continua...