OPERAZIONE CROSSROADS
L'Atollo di Bikini
Sogno, Odissea, La meta finale
 
testo di Claudio Pistocchi   foto di Lorenzo Ercoli

 

Un poco di storia

L'Operazione Crossroads nasce nelle malate menti di un manipolo di Ammiragli Statunitensi, appoggiati da alcuni scienziati e da parte del Congresso. Era il 1945.

Quello che oggi sappiamo su questa operazione militare è stato coperto dal segreto per decenni, ed ancora oggi molta parte di ciò che accadde non è stato divulgato. Le macerie di Hiroshima e Nagasaki erano ancora fumanti che già serpeggiava negli ambienti militari di Washington una insistente voce. Una voce fomentata dalla potente lobby vicina all'industria aereonautica Statunitense. In pratica si diceva che data la potenza distruttiva dei nuovi ordigni, capaci da soli di far vincere una guerra come quella appena conclusa, mantenere i costi di una Marina come quella Americana era inutile ed inopportuno.

Le grandi navi costavano milioni di dollari, ci volevano anni per costruirle, ed una sola delle nuove bombe poteva da sola distruggerle ad un costo infinitamente minore. E per fare questo sarebbe bastato potenziare l'Aviazione, ad ovvio discapito della stessa Marina. Si capisce che la cosa preoccupasse non poco gli alti papaveri dell' Ammiragliato Statunitense. Si doveva scovare qualcosa per fugare la possibilità che il Congresso riducesse o addirittura eliminasse gli stanziamenti per la Marina.

E qui gli Ammiragli seppero esprimere una serie di concetti che dire sbalorditivi è cosa da ridere. Si cominciò con il convenire, dato che negarlo sarebbe stato impossibile, che in effetti le nuove bombe erano portentose. Certo, si insinuò, sono potenti, ma altrettanto imprecise. Sganciare un ordigno così grande da un aereo ad alta quota rende il colpire l'obiettivo molto difficile. E se l'obiettivo non viene colpito con precisione, la bomba per quanto potente diventa senza dubbio molto meno efficace.

E la Marina Militare avrebbe saputo essere piu precisa nel colpire una flotta, di quanto non lo fosse l'Aviazione. Certo nessuno si sarebbe aspettato la mossa successiva. L'Ammiragliato dichiarò infatti che era in grado di dimostrare quanto affermato.

Fu così messa in piedi la piu colossale esercitazione bellica della storia, e una delle piu grosse corbellerie delle tante commesse nel corso degli anni da questo genere di bipede pensante. Fu radunata una flotta di 242 navi e 156 aerei, fra militari (portaerei, corazzate, incrociatori, fregate, caccia, navi appoggio, sottomarini) e mercantili.

Molte erano navi militari oramai obsolete, Americane o sequestrate al nemico, altre erano navi regolarmente in servizio. Alcuni di questi vascelli erano carichi di storia bellica. La Saratoga (CV3) era la terza portaerei mai costruita, scampata all'attacco a Pearl Harbour, l'Arkansas una corazzata vecchia maniera con i ponti spessi oltre un metro di acciaio, la corazzata Giapponese Nagato, dalla cui plancia l'ammiraglio Yamamoto comandò l'attacco a Pearl Harbour. E tantissime altre.

Le navi furono ormeggiate nella grande laguna dell'Atollo di Bikini, scelto per la sua lontananza da tutto e da tutti. Territorio strappato ai Giapponesi durante la guerra. Alcune di queste navi erano intatte, altre smontate di alcuni apparati, altre ancora con a bordo apparecchi di monitoraggio ed animali a far da cavia.

Ai Bikiniani fu detto che questi esperimenti servivano per non dover piu fare guerre. I 167 indigeni che abitavano gli atolli della laguna furono deportati in massa con la falsa promessa di una nuova terra. Donne, vecchi e bambini furono caricati di peso sui mezzi da sbarco militari e trasportati lontano dalla loro isola, con in tasca una manciata di dollari ed una grande quantità di birra e coca-cola.

Parcheggiati in un atollo lontano, dove rischieranno di morire d'inedia, poi ancora deportati per anni. Infine fatti stabilire su di un nuovo atollo, che rimarrà sepolto dal fallout radioattivo della terribile esplosione della bomba all'idrogeno fatta brillare sempre a Bikini nel marzo del '54. Ancora una volta lo strapotere dell'uomo bianco soverchiava una minoranza.Non fu la prima, non fu l'ultima.
Ma torniamo all'Operazione Crossroads.
Furono costruiti numerosi bunker di osservazione sugli atolli della laguna, cemento e vetro per contenere telecamere ed uomini a documentare la scena. Si, avete letto bene. Alcuni uomini rimasero ad assistere alle esplosioni.

E neanche tanto pochi, a quel che sapremo solo quaranta anni dopo. In totale oltre 42.000 persone lavorarono prima, durante e dopo le due esplosioni, su e nelle vicinanze dell'atollo. Và detto che delle nuove bombe si sapeva ben poco. Certo che erano molto potenti lo si era visto, che potevano radere al suolo un intera città era cosa oramai nota, ma era la distruzione invisibile e subdola che potevano arrecare che era ancora pressochè sconosciuta. I raggi Gamma erano ancora in fase di studio.

Certo gli scienziati ipotizzavano tante cose, ma quale migliore occasione per portare conferme al banchetto delle teorie? A dire il vero, una certa parte della comunità scientifica si schierò nettamente contro questo genere di esperimenti, ed era gente qualificata a farlo, gli scienziati del Progetto Manhattan. Ma non furono ascoltati, anche se erano gli unici che l'atomo lo stavano studiando.

Fu in questo teatro che operarono quelle migliaia di uomini, anche se il numero reale è ancora oggi vago ed imprecisato. C'erano alti gradi delle tre armi, membri del Congresso, numerosi alti ufficiali dell'Ammiragliato, decine e decine di giornalisti con operatori e fotografi al seguito, semplici militari, medici e scienziati con i loro assistenti. Insomma una numerosa schiera di spettatori. Il biglietto lo pagheranno nei mesi e negli anni a venire.
 
Il gioco era di una semplicità pazzesca. Sarebbero stati fatti esplodere due ordigni. Il primo gettato da un aereo e che avesse come obiettivo una delle navi nella laguna. Il secondo fatto brillare direttamente a bordo di una delle navi, probabilmente un sottomarino.
Fu il 2 luglio del 1946 che la bomba Able uscì dalla stiva dell'aereo che la trasportava non appena il puntatore ebbe inquadrato nel mirino il ponte verniciato di rosso della corazzata che fungeva da bersaglio.

La bomba cadde veloce mentre l'aereo si allontanava ad alta quota. La gente nei bunker, gli occhi protetti da occhiali oscurati, volgeva lo sguardo al centro della laguna. L'ordigno esplose mancando l'obiettivo principale. I danni causati furono ingenti, ma non tali da determinare la distruzione che ci si poteva aspettare da un simile ordigno.

Gli alti ammiragli sorridevano nei loro bunker. 48 ore dopo, usciti dai rifugi, militari, giornalisti e compagnia bella se ne andavano a giro per la laguna a quantificare i danni subiti dai vari scafi. Subacquei militari si immergevano su quelli affondati, marinai accompagnati da giornalisti e fotografi ispezionavano quelli non colati a picco. Naturalmente si presero delle precauzioni per limitare l'affetto di possibili danni alle persone, come il lavare con getti di acqua le navi alla fonda, e lavarle a forza di spazzoloni e di braccia utilizzando le decine di marinai a disposizione.

Fatta che fu la stima dei danni, si poteva procedere alla seconda parte del mortale gioco. Il 26 luglio successivo, la bomba Baker fu fatta esplodere dalla Marina a bordo di un sottomarino, al centro della flotta ormeggiata nella magnifica laguna. L'effetto fu devastante. Milioni di metri cubi di acqua e coralli furono sollevati per quasi due chilometri d'altezza sulla laguna per poi ricadervi. Decine di navi furono letteralmente polverizzate dall'esplosione e non ne fù mai piu trovata traccia. Altre, pesanti decine di migliaia di tonnellate, alzate come fuscelli e scaraventate sul fondo della laguna a qualche centinaio di metri di distanza. Altre ancora sprofondate di colpo, intatte nelle loro strutture.

Fu il piu grande rilascio di radiazioni mai avvenuto fino a quell'epoca. Di particolare effetto un filmato d'epoca che riprese fotogramma per fotogramma questa esplosione. Si distingue chiaramente la sagoma della Saratoga in verticale, come in piedi nel fungo atomico. La ritroveremo sotto una ventina di metri di acqua, in perfetto stato di navigazione, pressoche intatta in alcuni suoi punti, ben acciaccata in altri.

Altre 48 ore e di nuovo una folta schiera di militari e civili si precipita nella laguna per constatare i danni. Vengono effettuati rilievi e misurazioni, fatte immersioni sui relitti affondati e stilate migliaia di pagine di rapporti. Questa volta è stato un successo, sic !!! Sarà circa dopo altre 48 ore che durante una favolosa festa tenuta nei saloni dell'Ammiragliato di Washington, l'allora Ammiraglio in Capo annuncerà ai numerosi membri del Congresso e ai tanti militari presenti che l'Operazione Crossroads si è felicemente conclusa.
E che le risultanze di tale operazione dimostrano senza l'ombra del minimo dubbio che una bomba atomica puo essere veramente devastante per una flotta, ma a patto che a farla esplodere sia la Marina e non l'Aviazione. Geniale, non trovate ?

Non tutte le navi ormeggiate in rada saranno danneggiate dalle esplosioni. Alcune rimarranno miracolosamente intatte, in una decina di casi saranno addirittura rimesse in servizio. Una decina di quelle danneggiate saranno rimorchiate al largo della California ed ormeggiate in una base della Marina. Su queste navi saranno effettuate periodiche ispezioni per misurare gli effetti delle radiazioni nel tempo.
Ci vorranno una decina di anni prima che un operatore salga a bordo di una di queste con un nuovo modello di rilevatore di raggi Gamma. Passato un primo momento di disappunto per l'improvviso gracchiare del misuratore, ci si rese conto che siccome doveva per forza funzionare benissimo, non poteva essere guasto, e che il livello di radioattività era talmente alto da non poter essere rilevato dalla scala del misuratore.

Quelle navi erano delle vere e proprie bombe galleggianti, e per i dieci anni passati moltissime persone ci erano salite con una tranquillità che di colpo cessa per far spazio a giustificati timori. Nel giro di poche settimane si decise di rimorchiare le navi su di una delle fosse oceaniche del Pacifico e di affondarle con la massima discrezione. Come farebbe un bambino a cui sia caduto il vasetto della marmellata. Ma oramai, e da lunghi anni, troppe persone si erano sporcate con quella marmellata.


Si ipotizzò che l'atollo sarebbe rimasto inquinato dalle radiazioni per almeno un migliaio di anni, e ci si affannò a cercare di porvi rimedio. I militari scavarono per numerose volte metri e metri di sabbia dagli atolli, per caricarla su navi e gettarla in mare,lontano dalle isole. Milioni di metri cubi di nuova sabbia furono portati da isole lontane, migliaia di palme furono ripiantate. Si cercava di occultare l'orrore. Per 45 anni l'Atollo di Bikini è rimasto chiuso al mondo,ancora utilizzato come poligono durante la guerra fredda, poi monitorato dai militari e dagli scienziati. Nessun uomo ha pescato, fatto il bagno o si è immerso in queste acque per decenni. Fu all'inizio degli anni '90 che i test cominciarono a rivelare un risultato sorprendente.

La radioattività sulle isole, nelle acque e nell'aria dell'atollo erano a livelli inferiori alla media nazionale Statunitense. Residue tracce si trovavano ancora nel latte delle noci di cocco, probabilmente a causa del fatto che le radici delle palme si spingono molto in profondità. Come era potuto accadere ? Possibile che ci si fosse sbagliati ? Possibile che dopo soli 40 anni dalle esplosioni la natura avesse rimarginato quelle profonde ferite ?


Le Isole Marshall avevano nel frattempo ottenuto l'indipendenza dagli States, e dopo la solita elemosina di dollari erano diventate una Repubblica. Anche se gli Stati Uniti ancora conservano nell'area numerosi atolli, come quello di Johnston, ad un ora di volo da Bikini, base di missili intercontinentali e deposito di pericolosissimi rifiuti chimici. Un vero inferno coperto da un paradossale paradiso di sabbia a cui ci si avvicina solo guardati a vista e sotto scorta nel breve scalo tecnico che effettua l'aereo sulla strada di Majuro.

L'Atollo di Bikini sarà aperto al pubblico solo dopo altri cinque anni. Un piccolo resort per un massimo di una quindicina di ospiti, una base scientifica di osservazione e monitoraggio. Nessun Bikiniano ha fatto ritorno, ad oggi, sull'isola per stabilirvisi. Numerose le visite ufficiali degli ex deportati e dei loro discendenti, ma nulla piu è stato loro concesso.
 
In queste acque abbiamo fatto le immersioni piu interessanti della nostra vita, in queste acque abbiamo potuto osservare come la bomba abbia lavorato. In queste acque siamo sopravvissuti al nostro sogno, un sogno che però ci ha quasi ucciso.
 
Agosto 1992, Isole Seychelles, Oceano Indiano.

Il Sogno

Fu nel tardo
fine agosto del '92, durante una vacanza alle Isole Seychelles, che i miei occhi caddero su di una rivista inglese che parlava dell'Atollo di Bikini. Un servizio fotografico illustrava l'articolo che descriveva questo incredibile posto dove l'intelligenza umana, o almeno la sua pochezza, avevano regalato al mondo qualche migliaio di morti ed un centinaio di scafi affondati da test termonucleari. I primi gelosamente nascosti per decenni, i secondi ritenuti preclusi all'uomo per il prosieguo dell'eternità, ed invece restituiti alla vita da una natura che sa curare le sue ferite molto piu velocemente di come lo stupido animale eretto che popola il pianeta sappia immaginare. Le immagini mostravano dei subacquei militari immersi su di un relitto enorme, la cui sagoma si perdeva nell'orizzonte del fotogramma. Era il relitto della portaerei Saratoga. Fu come un colpo di fulmine, subito me ne innamorai.

Avevo appena conseguito il mio brevettino subacqueo di primo grado. Iniziato alle immersioni per puro caso durante quella vacanza sulle isole, riluttante e timoroso della massa d'acqua alla quale mai prima di allora avrei pensato come al mio secondo mondo. Non ringrazierò mai abbastanza l'indigeno che mi convinse a fare quel primo passo, e che ho ritrovato le numerose volte che sono tornato su quelle isole incantate. Ebbene, avevo appena iniaziato a muovere i miei primi passi sotto al pelo dell'acqua che già un sogno mi attraversava la mente: i lontani relitti dell'Atollo di Bikini.

Un sogno che ho potuto realizzare solo dopo 8 anni da allora. Un sogno a cui ho dedicato anni ed anni di tutto il mio tempo libero, accrescendo il mio bagaglio di subacqueo lentamente e con determinazione. Anni che mi hanno visto spendere il mio tempo libero prestando assistenza ad altri subacquei in crescita, ed al tempo stesso continuando a studiare ed a frequentare corsi per accrescere l'esperienza che avevo sempre ritenuto necessaria per poter affrontare il viaggio della mia vita, quello che mi avrebbe portato a immergermi sui relitti di Bikini.

Sono stati anni bellissimi, in cui la subacquea mi ha fatto scoprire un mondo nuovo, un nuovo modo di vivere e nuove amicizie oggi indissolubili. Il mio lavoro mi porta ad un contatto con la gente che spesso è stressante, ma il solo pensiero del potersi immergere ogni domenica mi porta a superare gli eventuali malumori. Sono fermamente convinto della validità terapeutica dell'attività subacquea nei confronti degli stress quotidiani. L'eplosione di silenzio che si trova là, sotto il pelo dell'acqua, e nelle sua profondità è difficilmente descrivibile in maniera razionale a chi non abbia mai provato tali sensazioni.

L'assenza di peso, il librarsi come in un pindarico volo, portano la mente ed il corpo ad un rilassamento inusuale. Persino in quelle immersioni in cui si è sommersi di attrezzature, goffi ed impacciati alla vista di un profano, lo sforzo fisico passa in secondo piano lasciando spazio ad una rilassatezza che appaga.

Ma non si confondano queste mie parole. L'andar sott'acqua richiede un valido e lungo addestramento. Il farlo in profondità richiede ulteriori esperienze e pratica, ed ogni qualvolta si cambi ''modus operandi'' ancora ulteriore addestramento e pratica. Immergersi su di un relitto sotto al pelo dell'acqua non è come farlo a cinquanta metri,e figurarsi il farlo a cento e piu metri. Immergersi con attrezzature pesanti prevedendo la gestione di lunghe decompressioni è cosa che non può non essere considerata pericolosa. L'addestramento del subacqueo richiede tempo e cura, conviene ripeterlo, anche a rischio di esser noiosi.

Nulla deve essere lasciato al caso, si dovranno prevedere numerosi scenari ed essere preparati a gestire le emergenze che potrebbero insorgere. Composizione dell'attrezzatura, gestione dei gas, pianificazione e tutto quanto attiene ad ogni singola immersione debbono essere discusse e ben impresse nella mente di ognuno. Si dovrà acquisire pratica a gestire il tutto con naturalezza, sovraimparando movimenti e reazioni. Nelle profondità marine, ma spesso più vicino alla superficie, la gestione di immersioni non deve in nessun caso superare la soglia di confort abituale, ne eccedere la preparazione o l'attitudine. La conseguenza dell'inosservanza di tali semplici regole può essere la piu infausta.

Ho conosciuto Lorenzo durante un corso base. Lui era l'allievo, io il suo divemaster, la sua guida. Negli anni a venire è divenuto uno dei miei compagni di immersione, con lui ho intrapreso la strada della subacquea tecnica, con il chiaro proponimento dell'utilizzare tale addestramento per l'immersione su relitto, in particolar modo con l'interesse per le riprese e la fotografia subacquea. La nostra è una amicizia atipica. Non ci vediamo per settimane, poi magari partiamo assieme per le vacanze e stiamo insieme per un mese intero. Gastronomo io, medico lui. Accomunati dalla passione per questo sport, e da qualche altra piccola gioia della vita. Sott'acqua il nostro affiatamento è di quelli che non richiede troppe parole, basta uno sguardo od un piccolo gesto per capirsi al volo. Fu quasi per scherzo che nell'inverno del '99 cominciammo a parlare di Bikini e di come sarebbe stato bello farci un viaggetto. Di li a poco avremmo cominciato la pianificazione di questa vacanza.

Una pianificazione che in realtà cominciò quella lontana estate del '92, alle Isole Seychelles, l'attimo in cui presi in mano quella rivista.

- Agosto 2000, aereoporto Leonardo da Vinci, Roma: Sbarchiamo dal nostro volo da Firenze e subito ci dirigiamo al ritiro bagagli. Riconoscere le borse delle nostre attrezzature è facile anche fra le centinaia di valigie che girano sui nastri. Sono le piu voluminose, e le piu pesanti. Lorenzo ha scelto una borsa di cordura, portandosi tutto il materiale fragile nel bagaglio a mano. Non è facile per lui simulare naturalezza nel trasportare quella borsa nera dalle canoniche misure dei bagagli a mano, stipata di tutto ciò che si potrebbe danneggiare. Se la posasse a terra e qualcuno cercasse di rubargliela, il ladro potrebbe slogarsi un polso al solo tentativo di alzarla.

Io ho scelto di portare con me solo i computers da polso, la bussola a bagno d'olio, e la telecamera. Tutto il resto è stipato in un baule rigido di quelli da materiale fotografico, con i bordi rinforzati e cellophanato con pellicola antigraffio. Un bagaglio a prova di naufragio lo ebbe a definire l'addetto alla cellophanatura. Come ci sia andato vicino non se lo immaginerà mai.

Per fortuna questa specie di piccola utilitaria si muove su ruote sue, al momento della pesatura da sola farà segnare 57 kg sul display del controllo bagagli. Praticamente, senza pesare il bagaglio a mano, in due abbiamo quasi 120 kg di bagaglio. Un peso simile farebbe preoccupare chiunque.

Ma noi siamo tranquilli, io ho il mio metodo. Abituato a viaggiare appesantito dalle attrezzature ho sviluppato una mia tecnica per riuscire a non dover pagare sovrappesi. E vuoi la fortuna, vuoi il caso, mi è sempre riuscito. Il metodo consiste nell'arrivare in aeroporto almeno un ora prima che aprano i cancelli di imbarco del volo. Ci presentiamo allo sportello della compagnia aerea e chiediamo gli adesivi per contrassegnare i bagagli fragili, che di solito ci vengono copiosamente concessi. Etichettiamo ogni lato del bagaglio con questi adesivi e scambiamo qualche battuta con l'addetto.

Ci portiamo ai gates di imbarco almeno una mezz'ora prima dell'inizio delle operazioni. Non appena vediamo arrivare gli addetti, scegliamo quello che ad occhio ci sembra il piu rilassato, il meno serioso. Poi è solo questione di grande educazione, di battute azzeccate e di pochi altri particolari. Il fatto che ancora non ci sia nessuno, che siano i primi bagagli imbarcati, che l'addetto non sia ancora stressato ma anzi disposto alla battuta, che i bagagli siano già belli etichettati e che chiaramente contengano attrezzature di particolare importanza, insomma tutto questo insieme, di solito, funziona.

Sarà un lungo viaggio. Non so se avete idea di dove siano le Isole Marshall, ma è un puntino nel Pacifico Centrale. Un arcipelago lontano da tutto e da tutti. Firenze-Roma, Roma- Toronto, Toronto-Honolulu, Honolulu-Majuro, piu alcuni scali intermedi. Una lunga serie di atterraggi e decolli, di attese e di stop fra un volo e l'altro ci porta ad arrivare a Majuro, la capitale delle Marshall, dopo due giorni dalla partenza. 
 
Majuro, Arcipelago delle Isole Marshall, Pacifico Centrale.

L'Odissea
L'Atollo di Majuro,
capitale delle Isole Marshall, è un isola lunga e stretta dalla forma curva. Su una delle sue estremità sorge l'aereoporto internazionale, una pista ed una spartana sala d'attesa.

Un pulmino ci accompagna verso l'albergo dove passeremo la notte. Fa un caldo soffocante. C'è un'unica strada che percorre l'isola, lunga e circondata dal mare che in alcuni tratti dista solo pochi metri da ambo i lati della carreggiata. Un traffico molto pesante ingorga quest'unica via. Decine e decine di auto la percorrono nei due sensi, incomprensibilmente. Alcuni resort, pochi negozi, la sede del governo, alcuni supermercati, centinaia di casupole e di villette stile occidentale.

Questa è Majuro. Per fortuna siamo solo di passaggio. Stanchi ma felici passiamo la notte nelle nostre camere. Il fresco del condizionatore mitiga l'altissima umidità esterna, ed il sapere che mancano solo poche ore per arrivare nel luogo dei miei sogni mi culla in un sonno breve ma riposante. E' al mattino, dopo un abbondante colazione all'Americana, che siamo pronti alla partenza.

Il telefono della mia stanza trilla, è il rappresentante locale del nostro tour operator che ci convova nei suoi uffici, problemi ad un aereo ci dice. Arriviamo preoccupati negli uffici dove ci avevano convocati, e qui facciamo conoscenza con gli altri quattro membri del nostro stesso viaggio. Quattro subacquei australiani, impazienti come noi di ascoltare le novità. Un grande tavolo di legno stà al centro della sala dove ci accomodiamo, al muro numerose carte nautiche delle isole circostanti e dell'intero arcipelago.

Purtroppo, ci si spiega, uno dei due Dornier della locale compagnia aerea ha avuto una grave avaria ad uno dei due motori ad elica. Per motivi di sicurezza anche l'altro aereo deve essere revisionato. Il meccanico dovrà arrivare dalla Germania e ci vorranno numerosi giorni. Cercando di sollevare il nostro morale appena crollato, il responsabile ci dice che abbiamo due possibilità. La prima è quella di rinunciare al viaggio e di far ritorno a casa. La seconda è quella di effettuare il trasferimento da Majuro a Bikini in barca. Abbiamo davanti ancora tre settimane di tempo, e siamo già al nostro terzo giorno di viaggio in andata.

Poco meno per gli Australiani, che pur avendo impegnato meno tempo per arrivare fin qui, hanno in programma un soggiorno piu breve. Innanzitutto chiediamo quanto sia distante Bikini. Alcune centinaia di miglia, ci dicono. Le condizioni del mare, che in quel momento non era calmissimo, ci preoccupano. Ma il responsabile ci rassicura sul fatto che le condizioni meteo sono in miglioramento, e che si tratta di un giorno e mezzo di viaggio.

Cosa da poco, insomma. Vorremmo sapere con che barca faremmo il viaggio, e ci viene assicurato che lo faremo con una barca che ha già effettuato lo stesso tragitto numerose volte, una barca attrezzata all'uopo. Non ci vuole molto ad accettare la loro offerta ad effettuare il viaggio via mare, l'alternativa di tornare a casa ci alletta ancor meno, e le loro rassicurazioni fanno il resto.


E' quasi al tramonto che il pulmino che ci deve accompagnare al porto lascia il piazzale dell'albergo. L'acquazzone tropicale che stà venendo giù da un oretta ci ha inzuppati ben bene. I nostri bagagli, assieme a quelli degli australiani, occupano quasi tutto lo spazio disponibile sul pulmino.

Siamo comunque pimpanti, l'arrivo a Bikini è solo rimandato di qualche ora, ma presto saremo nelle acque della sua meravigliosa laguna. Almeno questo è quello che ognuno di noi crede. All'arrivo in porto, la prima sorpresa. La barca che ci deve portare a Bikini è una specie di rimorchiatore, massiccio ma certo non un esempio di moderna cantieristica. Un vero e proprio fortunale ci accompagna durante le operazioni di imbarco. Velocemente saliamo a bordo e i nostri bagagli vengono stivati in un gavone.

La barca, l'Emerald, sembra un poco ''vissuta'', ma il viaggio sarà breve e possiamo sopportare. Consiste di un ampio ponte coperto, un'unica cabina con 12 cuccette a prua, un ponte superiore scoperto e la plancia di comando. Una piccola cucina ingombra di mille cose si trova sul ponte coperto. E' oramai sera, la barca molla gli ormeggi e parte decisa puntando verso nord.

E' veloce, almeno una ventina di nodi dati dalla spinta dei due potenti motori. Un improbabile cuoco cucina per noi la cena. Abituato a girar per cucine da quando ero poco piu che bambino, un moto di curiosità mi porta a dare uno sguardo alla cambusa. Meglio che non lo avessi fatto. Ma le spezie, si sà, fungono da disinfettante. Ed il nostro pollo al curry di spezie ne è pieno davvero, per fortuna. La cabina deve essere stata riverniciata di fresco, un forte odore di resina epossidrica pervade l'ambiente. Ma c'è il condizionatore, e l'assordante rumore dei motori qui è meno forte.

Certo, un paio di lenzuola pulite ci potevano pure esser date, ma la stanchezza prende il sopravvento e riusciamo ad addormentarci lo stesso. Gli Australiani preferiranno dormire sul ponte coperto, l'odore di vernice li disturba piu del rumore e del caldo.

Mi sveglio al mattino e subito la mia attenzione viene colpita dal rumore. E' chiaramente diminuito. Esco sul ponte e chiedo a Kevin, il piu anziano degli Australiani, come mai ci fosse piu silenzio. Mi avverte che durante la notte, uno dei due motori ha avuto dei problemi e adesso è spento. Il meccanico di bordo, un segaligno ed anziano indigeno, stà cercando di ripararlo. Ma il viaggio continua. Siamo oramai in pieno Oceano Pacifico, il temporale ha lasciato posto ad uno splendido sole. Il mare è piatto come una tavola. L'Emerald, pur ferito in uno dei suoi motori, scivola sull'acqua verso Bikini. Nessuno pensa che sarebbe meglio tornare indietro. La pancetta sfrigola su di un orrenda piastra.

Mio nonno soleva dire che ''quel che non ammazza, ingrassa'', di conseguenza se non ci uccide la colazione dovremmo fare un buon mezzo chilo. E ciò che non mangiamo, finisce ai pesci. E' nel tardo pomeriggio che il motore superstite esala una spessa fumata nera e si spenge. Un silenzio irreale pervade la barca. Il segaligno meccanico ci guarda e si rituffa nel vano motori. Passa un ora, ne passa un'altra.

Scherziamo con gli Australiani sulla situazione. Ci dicono di aver chiamato qualcuno via radio, e che una barca piu grande stà arrivando. Incrocio il mio sguardo con Kevin e subito pensiamo la stessa cosa. Io ci sono arrivato da Firenze, lui da Sidney, ma ambedue comprendiamo che è una balla. Il sole tramonterà a breve, non vi è nulla all'orizzonte, chi dovrebbe venire in nostro soccorso? La notte arriva veloce, l'oceano comincia a muoversi. Quasi nessuno approfitta della cena preparata dal cuoco, a parte l'equipaggio.

Gli avanzi finiscono in mare, ed è l'occasione per un attimo di diversione. Subito un paio di squali fanno man bassa degli avanzi galleggianti. La cosa ci diverte, ma ci lascia un attimo di inquietudine. Gli squali seguono la barca in attesa degli avanzi? Le ore che seguiranno saranno un inferno.

Sia io che Lorenzo prendiamo un sonnifero, nella vana speranza che possa aiutarci a riposare. Una tempesta violentissima colpisce la barca alla deriva. Spenti i motori, siamo senza corrente elettrica. In verità ci sarebbe un piccolo generatore diesel, ma serve ad alimentare il condizionatore e l'enorme congelatore a pozzo che stà sulla coperta. Niente di quella corrente viene utilizzato per l'emergenza.

La radio funziona grazie ad una batteria smontata dal primo motore fermatosi, il Gps lo alimentano con la stessa batteria, staccando ora i cavi di un apparato, ora l'altro, facendo scintille. Nel buio piu totale, lampi di luce annunciano l'arrivo di tremendi boati. Un vero muro d'acqua. Gli Australiani continuano a preferire il ponte coperto alla cabina. La barca ondeggia paurosamente, violente ondate ci colpiscono periodicamente dalla parte della poppa, poi su una fiancata. Sentiamo la barca rollare sul fianco, la sensazione è che possa scuffiare da un momento all'altro. Tutto a bordo sbatte in un rumore assordante, tutto rotola. Sono attimi interminabili, che dureranno ore. Il mattino ci trova ben svegli.

L'oceano è di nuovo calmo, ed un sole cocente si alza all'orizzonte. Saliamo in plancia per chiedere notizie. Il ''comandante'' dorme nella sua cuccia, il suo ''secondo'' stà alla radio, lanciando messaggi a cui nessuno risponde. Tutta la notte l'ho sentito chiamare il me-de, dichiarando un improbabile posizione. Lorenzo si sente poco bene, il suo mal di mare è cosa nota, ed in questa situazione non può che peggiorare. Prende un altro sonnifero. Riusciamo a parlare con qualcuno alla radio, avvertiamo che abbiamo bisogno di aiuto e che ci sono due persone che stanno molto male.

Ci viene detto che nel caso fossero peggiorate (?!?) avrebbero mandato un piccolo aereo per recuperarli (?!?). Tutto il giorno passa con la barca che ondeggia in un mare tranquillo, completamente alla deriva. Nulla di nulla si intravede all'orizzonte. Lo avevo visto in qualche film, ma questo stà veramenta accadendo a me, ed alle altre persone che sono qui con me. Cominciamo ad essere irrequieti, la sorpresa iniziale comincia a lasciar posto all'ira. Insistentemente e piu volte chiamiamo via radio, ma la risposta è la stessa. Ancora una volta cominciamo a temere per l'avvicinarsi dell'imbrunire. Puntuale il vento si alza, prima è una brezza, poi man mano rinforza. Il pranzo prima e la cena poi finiscono ai soliti squali.

E chi ha voglia di mangiare? Fra l'altro l'unico servizio ''igienico'' di bordo non funziona, e la voglia di mangiare passa facilmente. Per urinare ci si arrangia, ma non c'è acqua se non quella di mare. E di fare un tuffo non se ne parla, visto che magari ci potrebbero scambiare per la cena avanzata......

L'oceano comincia a gonfiare, onde alte alcuni metri prendono a farci dondolare in maniera regolare. Sono ancora onde lunghe, quindi la barca le cavalca alla meglio. In una rara intuizione, il nostro equipaggio (e chiamarlo equipaggio è un grandissimo complimento, credetemi) sale sul ponte di coperta per assicurare con delle cime l'enorme congelatore. Si fosse spostato repentinamente durante una delle imbardate, avrebbe potuto da solo determinare il rovesciamento della barca.

Di li a poco ecco tornare la tempesta. La replica è uguale alla notte della prima, stesso copione, stessi attori. E nessuno che chiede il bis. Stà ancora albeggiando che in preda ad una incazzatura di quelle che mai prima avevo avuto salgo le scale verso la plancia. Spalancata la porta della cabina vomito addosso al comandante ed al suo vice una valanga di insulti.

Nonostante il mio inglese non stile Oxford, evidentemente riesco a farmi capire, o perlomeno qualcosa ottengo. Il secondo fruga fra una marea di cianfrusaglie che coprono il pavimento e agguanta una valigetta, la apre e ne esce un Epirb (strumento di radioposizionamento satellitare, ndr) me lo mostra ed esce sul ponte, ne lega la cima ad un candeliere e getta l'apparecchio in acqua. Subito vedo il led rosso che si accende, la cosa mi calma un attimo. Comincio a pensare.

L'Epirb si è attivato al contatto con l'acqua, in questo momento un segnale radio stà viaggiando verso il cielo alla ricerca di uno dei satelliti del sistema, per poi rimbalzare in una delle varie centrali di ascolto sparse sulla terra. Lancia un segnale di me-de, con il nome della barca, l'ora e la posizione esatta determinata dal satellite. L'approssimazione è di poche decine di metri. Passano un paio di ore che la radio di bordo gracchia qualcosa, ha funzionato.

Ci precipitiamo per ascoltare. E' Radio Honolulu. Hanno raccolto il nostro me-de, e ci dicono di aver passato l'allarme alla vedetta della Guardia Costiera Australiana che pattuglia la zona. L'euforia scaccia la tristezza e le facce tumefatte dalla nottata diventano radiose.

Gli Australiani ballano per la gioia, una loro vedetta stà arrivando in nostro soccorso. O almeno questo è quello che abbiamo capito. Sapremo molto tempo dopo che in realtà, Radio Honolulu (che dista 7 ore di volo con un jet dall'arcipelago delle Marshall) ha sì passato l'allarme alla Patrol Boat Australiana, ma che la vedetta è allo stesso momento impegnata in un altro salvataggio oltre 1000 miglia piu a sud, dove una decina di persone compresi alcuni bambini stanno rischiando di affogare, e che quindi non sarebbero potuti arrivare da noi prima di una settimana. Ma al momento non lo sappiamo, e ci godiamo l'ennesima giornata di sole. Lorenzo non si schioda dalla sdraio su cui si è coricato due giorni fà, anche uno degli Australiani stà male.

Ma chi stà bene, qui ? E' l'arrivo della sera che ci riporta alla realtà dei fatti. Io sono ateo. Non me ne vanto, è una realtà che mi accompagna da anni, è una scelta consapevole, come lo è quella di credere. Ebbene, quel sabato sera, aspettando l'arrivo della notte con le sue tempeste, aspettando di sentire la barca adagiarsi su un fianco, meravigliandosi del fatto che non si capovolga per poi cominciare ad aspettare l'onda successiva, quel sabato sera, dicevo, ho visto uno degli Australiani da solo in un angolo.

L'ho osservato ed ho capito che stava pregando. Mi è sembrato di fargli violenza, di spiarlo, e subito ho distolto lo sguardo, lasciandolo alla sua preghiera. Ebbene, in quell'attimo, ho invidiato quel ragazzo che pregava, e che probabilmente riponeva le sue speranze in una entità a lui superiore. Mentre io ero solo con le mie paure, a pensare a tutte le cose non finite di fare, a quelle mai osate, alle cose non dette ed ai sentimenti risparmiati. Uno stato d'animo che non avrei saputo immaginare.

L'oceano comincia il suo balletto, pian piano. Qualcuno chiama alla radio, è una barca di un atollo vicino, ha sentito gli allarmi e ci stà cercando. Dovrebbe essere vicina ma non ci vede. Per forza non ci vede, siamo nel buio piu completo.

La notizia ci riporta in vita. Apriamo il gavone dei bagagli e ne tiriamo fuori le nostre potenti torce subacquee. Saliamo in coperta, e cominciamo a fare segnali di luce nella direzione da cui la barca dovrebbe arrivare. Il comandante prende i razzi di segnalazione e ne esplode uno. Il razzo si alza verso il cielo per un paio di metri e poi cade in acqua.

Ne spara un secondo, si alza meno del primo. Il terzo non esplode neppure. Le dotazioni saranno vecchie di anni. Anche i fuochi a mano a luce rossa sono scarsini e la cascata di scintille che fanno è terribilmente sbiadita. Chiediamo alla barca in arrivo se vedono le nostre luci, ma la risposta è negativa.

Quindi sono lontani, o la nostra posizione è sbagliata. Volgo lo sguardo verso la fiancata a cui era legato l'Epirb, e con grande sconforto noto che la cima a cui era attaccato non è piu legata al suo posto. Legato male si è liberato, chissà dove sarà adesso. Le prime torce si esauriscono, sono potenti ma la loro autonomia è breve. Decidiamo di organizzarci per non esaurire tutte assieme le scorte di luce.
Cominciano gli Australiani, in piedi sulla coperta, con la barca che ondeggia paurosamente, a lanciare segnali di luce nel nulla. Le torce si spengono pian piano, come il nostro umore. Lorenzo è in piedi, speranzoso come noi. E' il suo turno, e la sua potentissima lampada da 250watt lancia sciabolate di luce nella notte.

Poi tocca a me. Lego una piccola luce stroboscopica su un asta, in alto sul ponte. Dovrebbe durare alcune ore, emettendo brevi ma intensi lampi intermittenti. Passerà almeno un'altra ora prima che all'orizzonte si veda una piccola luce, subito chiamiamo via radio e anche loro confermano di aver visto balenare qualcosa nella nostra direzione. Ci hanno visto, finalmente.

Stanno venendo a prenderci. Ma il mare è grosso, e ci vorrà del tempo. Io sono al mio posto, a fare i lampi. Gli altri sono sul ponte coperto a conversare. In questo momento siamo tutti piu calmi, la prospettiva della barca che arriva ci regala una certa tranquillità. Destinata a durare ? E' un attimo, vedo un riflesso ed accendo la lampada. Subito illumino la barca in arrivo. Subito spengo la lampada e scendo le scale verso il ponte coperto. Il primo che incrocio è Kevin, gli chiedo '' Kevin, quante persone siamo qui a dover essere tratte in salvo ? '' 12, mi risponde lui. '' Siamo di piu, adesso'' rispondo io accendendo la lampada ed illuminando la barca in arrivo.

La luce della mia torcia illumina un barchino in legno di una decina di metri. Sarà la metà della nostra, come possono salvarci? L'abbrivio del loro mezzo li porta ad urtare violentemente contro la nostra murata sinistra, una botta pazzesca. Per l'urto rimbalzano indietro di qualche metro. Accendiamo tutte le luci rimaste. Non sembrano aver avuto danni. Hanno immediata necessità di carburante, si tratta di una barca di volenterosi pescatori che ci stà cercando da tutto il giorno. Non si sono posti il problema delle misure delle barche, sono coraggiosamente partiti per venire in nostro soccorso. Affiancare le barche con questo mare è impossibile, si pensa allora di porle in linea.

La loro barca, l'unica che può governare, si porta sulla nostra prua, almeno il moto di ondeggio è sincrono. Vengono preparate tre stagne di gasolio, portate sulla prua per essere passate ai coraggiosi pescatori. La loro barca è molto piu bassa della nostra, e la prua è alta. Per arrivare a prendere le stagne, due dei loro marinai salgono in piedi sul coperchio del loro vano motore. Passa una stagna, passa la seconda, passa la terza. Ecco che un onda piu alta delle altre fa rollare le barche in maniera perversa, il coperchio del vano motore del barchino soqquadra, i marinai cadono nel vano motore con l'ultima stagna di gasolio. Non ho idea di cosa sia successo dopo.

La visione di questo ennesimo atto mi ha provocato un crollo morale, ho spento la mia lampada, ho sceso le scale e mi sono rannicchiato nella mia cuccetta in cabina. Le mie speranze di veder finire lo strazio che animava la nostra quarta notte nell'oceano erano cadute assieme a quei marinai.

La stanchezza, lo stress, la rabbia accumulata in giorni che non finivano mai, sono esplosi in un solo momento. Per quel che mi riguardava io in quel momento ho considerato che saremmo morti tutti, che era inutile andare oltre. Ho mollato e mi sono andato a sdraiare nel buio della cabina. Morfeo mi è stato amico, e per alcune ore mi ha cullato nelle sue braccia. Ma forse era il mare in tempesta a farlo. Anche se non ho notato la differenza. Di nuovo la luce che arriva da fuori. Una calma assoluta, un silenzio profondo. Esco sul ponte e Kevin mi guarda come a chiedermi come và. Del barchino non c'è traccia. L'oceano è di nuovo calmo, come ogni mattina.

E' domenica, oggi. Kevin mi racconta che alla fine il barchino è riuscito a legare una cima alla nostra prua ed a rimorchiarci per alcune ore, a passo d'uomo, ma riuscendo a ridossarci al riparo di un reef.

Qui abbiamo potuto trovare sollievo da una tempesta ancora piu forte delle notti precedenti, insomma il barchino ci ha comunque fatto un grosso favore. Piu grosso di quel che crediamo. Non sapremo mai se quella tempesta, piu forte delle altre, avrebbe potuto fare accadere quello che nelle notti precedenti non era successo. Probabilmente dobbiamo la vita a quei pescatori che ci cercarono per un giorno intero e che si erano feriti dandoci aiuto.

Il meccanico di bordo decide di fare un tentativo, riprende la batteria della radio e la ricollega ad uno dei motori, armeggia per un ora, poi improvvisamente ecco che un motore tossisce un colpo violento. Una nera fumata colora il cielo. Subito si spenge, ma dopo aver acceso la nostra attenzione. Cosa stà succedendo? Lordo di grasso dalla testa ai piedi, il vecchietto stà armeggiando ai motori. Smonta un filtro, lo lava nel secchio della nafta, lo pulisce soffiandoci dentro con la bocca, sputa la nafta. Rimonta il pezzo e avvia il motore.

Un colpo, una fumata. Prima uno, poi l'altro i due motori scoppiettano e si riaccendono. Si prova a navigare, uno si spenge, poi si riaccende, poi ancora di nuovo. Insomma riusciamo a ripartire, prima a velocità ridotta, poi a manetta.

Lasciando una scia di fumo nero e densissimo. Siamo stupefatti, senza parole. Non comprendiamo questo epilogo. Quello che sappiamo è che stiamo di nuovo navigando. Il come non lo abbiamo ancora capito. Nel primo pomeriggio intravediamo all'orizzonte la sagoma di un atollo, è il primo della lunga corolla che circonda la laguna di Bikini. La vista dell'atollo ci fa saltare dalla gioia, e per la prima volta anche l'equipaggio abbozza un qualcosa che assomiglia ad un sorriso.

Il piccolo molo di Bikini sembra il gran pavese di una barca da crociera. Al posto delle bandierine vi sono tutti quelli che erano sull'isola e che hanno seguito via radio la nostra vicenda. Ci accolgono con bevande fresche e strette di mano. Siamo molto arrabbiati con Fabio e l'equipe del villaggio, al momento li riteniamo colpevoli per non esserci venuti incontro con la loro barca diving, non sappiamo che era oltre il loro raggio operativo. Comunque veniamo accompagnati ai nostri alloggi. Sono cinque giorni che non ci laviamo e che non vediamo un bagno.

La mia doccia dura piu di un ora, ed il poter indossare abiti puliti sembra un regalo di natale. Il mal di terra, subdolo, comincia a farsi sentire. Consumiamo qualcosa nella mensa, sotto gli sguardi incuriositi degli ospiti che sarebbero dovuti partire con l'Emerald non appena fossimo arrivati. Ma non si imbarcheranno, aspetteranno un aereo dalle Fiji dopo qualche giorno.

Abbiamo perso dieci chili a testa, su di me si notano poco, su Lorenzo un poco di più. La sera, sul balcone del nostro blocco di camere, io e Lorenzo ci siamo riuniti con gli Australiani. Qui abbiamo brindato al lieto fine della nostra avventura, abbiamo scherzato, abbiamo parlato del da farsi. Ma soprattutto ci siamo confessati l'un l'altro una cosa che tutti in quei giorni avevamo pensato, ma che nessuno aveva esternato. La convinzione vera e profonda che le nostre vite fossero giunte al capolinea. E tutti abbiamo convenuto di come fosse brutta la rassegnazione verso questa cosa. Una sensazione che non potremo mai dimenticare.

Una meta ultimativa: Abbiamo passato tutto il lunedi a rilassarci, a fare il bagno nella incredibile laguna di fronte ai bungalows. Abbiamo impiegato una buona mezza giornata per controllare bene tutte le nostre attrezzature, configurando i bibombola con le fasce metalliche per gli schienalini in acciao dei nostri jackets. E' stato un lavoro di routine, rilassante. E' servito a riportarci alla realtà. La mia pesantissima attrezzatura è finalmente all'aria. Controllo la telecamera, lo scafandro, ungo tutte le guarnizioni con il grasso al silicone, carico le batterie, provo i faretti.

Domani mattina faremo la nostra prima immersione sulla Saratoga.

Di solito al mattino mi sveglio uscendo dal mondo dei sogni, domani mi sveglierò per entrarci. .

SARA.
E' questo il soprannome che hanno dato al relitto, e pronunciato dagli Americani suona in maniera buffa. Quanto meno se parliamo di un relitto di quasi 270 metri di lunghezza. Il briefing sulla Saratoga dura una buona mezz'ora, la sala da pranzo con i suoi due tavoloni è il luogo ideale. Al muro una pianta dettagliata della portaerei e una riproduzione della targa in ottone con i dati del cantiere di costruzione. Il pulmino carica i nostri bibombola e parte verso il moletto, noi seguiremo di li a poco. La barca, di nome Bravo, è un grande diving deck con due file di panche lungo le murate. Montiamo le nostre attrezzature e controlliamo che tutto sia a posto, poi segnale di ok e partenza.

Il mare è calmissimo stamattina, il cielo di un azzurro quasi irreale con le immancabili nuvolette bianche sparpagliate qua e la. Io e Lorenzo abbiamo una guida tutta per noi, un giovanissimo ma abile istruttore Americano. Mezzo miglio circa, quindici minuti di planata, ed eccoci a pochi metri dal nostro sogno.

Tre grandi boe ad un centinaio di metri una dall'altra segnalano il relitto. Ci ancoriamo a quella centrale. Cominciamo i preparativi. L'attrezzatura mi sembra sufficientemente pesante, ma per sicurezza metto un paio di chili in cintura pensando alla decompressione da fare, saranno inutili e domani li toglierò. Appena pronti, un passo e siamo in acqua.

Uno degli assistenti di superficie mi passa la telecamera. Ok, si scende. Appena pochi metri sotto il pelo dell'acqua accendo la telecamera. Volgo lo sguardo sotto di me e noto una sagoma scura molto grande. Troppo grande per essere il relitto, probabilmente è il fondo, penso continuando a scendere.

Poi ecco che riesco a mettere a fuoco. Sotto di me appare la torre della Saratoga, siamo ad una decina di metri e riesco a distinguerla chiaramente, ogni metro in piu di discesa apre alla vista un orizzonte di immagini. Ecco che distinguo il ponte di volo, sembra un campo di calcio. Mi fermo un attimo a mezz'acqua, faccio un paio di bei respironi profondi. Sciacquo la maschera e mi concedo una vista d'insieme.

Probabilmente stò piangendo dalla gioia. Mai prima d'ora avevo visto qualcosa di simile. La Saratoga, vista da qui, appare intatta. In assetto di navigazione emerge dal fondo, il ponte di volo sgombro, uno degli grandi elevatori calato.

Poche reti avvolgono la torre di comando dando un alone di antico, di sfumato, alla scena. Mi accorgo di essere in apnea, la grande emozione toglie il fiato. Un colpo di reni e riprendo a scendere, diritti sul ponte di volo. Il ponte appare costellato di pioli, una volta su questi era inchiodata la copertura di legno a doghe che componeva il fondo della pista di volo. Oggi il legno non c'è piu.

Il ponte di volo stà sui 30 metri, gli hangar sui 38, massima 45 metri, la torre sui 12 metri, non fosse per l'emozione sarebbe un immersione abbastanza facile. Scivoliamo verso la torre e siamo sull'elevatore centrale. Si apre come un enorme pozzo sotto di noi. Qui si nota una certa distruzione, numerose lamiere ed il corpo di una delle gru ingombrano la luce dell'elevatore.

Puntiamo verso un ampio spazio sotto il ponte di volo, la luce delle nostre torce ci illumina la via. Siamo negli hangar. Un sottilissimo limo rossastro leggero come borotalco ricopre abbondantemente il pavimento. Una parte delle infrastrutture superiori è crollata.

Gli spazi sono enormi, lontano si intravede un intensa luce blu cobalto, è la luce esterna che entra da uno squarcio piu avanti. Alla nostra sinistra, parcheggiati da 55 anni, ci sono due aerei da caccia Helldivers. La strumentazione praticamente intatta, l'elica al suo posto, le ali ripiegate.

Piu avanti ecco una rastrelliera di bombe da 500 libbre, in fila, ordinate. Alcune prive della spoletta. Altre del detonatore. Mi appoggio al fondo con una mano per uno scatto d'effetto, ma il fondo non è affatto dove sembra essere, ma una ventina di centimetri piu sotto. La mia mano sprofonda in una massa rugginosa e morbida. Lentamente la estraggo dal limo, una densa nuvola rossa mi avvolge.

La sospensione cosi sollevata rimane ferma nell'acqua, come sospesa in aria. Mi stacco dal fondo con la massima cautela, adesso capisco perché durante il briefing si erano soffermati sul fatto che le penetrazioni sulla Saratoga si fanno one-way, a senso unico.

Ci dirigiamo verso la luce azzurra, usciamo da questo ampio squarcio sulla fiancata e riguadagnamo il livello del ponte di volo. Una postazione di cannoni antiarei punta le sue canne al cielo. Girelliamo sul ponte. Sembra incredibile, ma siamo in acqua già da 60 minuti. La deco sul computer prevederebbe quasi altrettanto prima di poter uscire dall'acqua. Ci dirigiamo verso la cima di risalita. Di qui alla stazione decompressiva. Una volta ai sei metri prenderemo la miscela iperossigenata che arriva dalla superficie in un lungo ed intrecciato narghilè. Di solito il tempo della decompressione passa lento, ma questa volta i ricordi del tuffo appena fatto percorrono veloci la mente, ed il tempo scorre via.

Non appena tolta la maschera, la faccia di Lorenzo, ma credo anche la mia, esprime una soddisfazione che non necessita si parole. Le facce dei quattro Australiani non sono da meno. Adesso, ma solo adesso, mi sento veramente meglio.

Nelle prossime quattro o cinque ore non faremo che riparlare di questa nostra prima immersione, e veramente mi dispiace di cuore per gli Australiani che dovendo volare la mattina dopo non potranno tornare in acqua. Abbiamo fatto cinque-sei immersioni sulla Saratoga, ma ce ne sarebbero volute diverse altre.

La più interessante in assoluto è stata la seconda. Il mattino del mercoledi eravamo i soli che si potessero immergere, tutti gli altri dovevano volare via per far posto ai nuovi arrivi.

La nostra guida, in accordo con il Capo Divemaster ci ha allora offerto un giro particolare, solitamente non incluso nella routine delle immersioni programmate per gli ospiti. Crediamo lo abbiano fatto come per scusarsi per quello che ci era capitato, non che loro ne avessero colpa, ma gli ha fatto piacere.

E a noi lo ha fatto di più !! Arriviamo sulle boe e ci ormeggiamo su quella di prua. Veloci scendiamo in acqua. La guida ci porta sul ponte di decollo, verso prua. In mente abbiamo già il percorso che andremo a fare.

Il briefing è stato piu accurato del solito, molto personalizzato. Entriamo sotto il ponte per uno squarcio abbastanza stretto, il bibo con il doppio sacco fatica a passare. Procediamo con estrema cautela, le lamiere sono molto affilate e taglienti e fare un danno all'attrezzatura sarebbe facile.

Ogni volta che arriviamo ad un passaggio piu stretto proviamo pian piano a vedere se si passa, a volte basta mettersi di fianco, altre si deve spostare qualcosa dell'attrezzatura che si stà impigliando. Siamo negli alloggi degli ufficiali, sotto al ponte di volo. Questa non è una penetrazione da luce a luce, buona parte del percorso è al buio. Una fine sagola guida traccia il percorso e le direzioni per le varie vie di fuga. Numerose stanze si aprono lungo uno stretto corridoio, alcuni ambienti sono ben spaziosi, altri piu piccoli e stretti. L'acqua davanti a noi è completamente stillata, di una trasparenza perfetta.

Basta però volgere lo sguardo all'indietro per rendersi conto del perché questo giro non viene offerto a tutti. Le bolle che escono dai nostri erogatori salgono verso il soffitto e rotolano via in cerca di uno spazio per uscire. Così facendo staccano dal soffitto e dalle paratie una nevicata di particelle di ruggine che pian piano diventa piu fitta. Illuminata dai fasci di luce arriva a compromettere la visibilità in maniera sensibile.

Basterebbe un attimo, una pinneggiata maldestra, per trovarsi ''al buio'' Le stanze sono ingombre delle suppellettili che arredavano gli ambienti, sedie, tavoli, stipetti, reti da letto e sedie sdraio. Alcune sono in ordine, altre arruffate. Lungo i corridoi, le lampade rosse dell'allarme sono intatte. Come possano aver resistito ad una esplosione termonucleare è cosa incredibile. Un grosso carangide ci viene incontro, nuota fra noi senza paura, ci gira intorno un paio di volte, si sofferma un attimo per guardarci meglio, poi torna da dove è venuto. Tutto ha un atmosfera stregata qui dentro.

Le sottili pareti divisorie fra una cabina e l'altra sono oramai corrose dal tempo, i lavandini sembrano galleggiare in aria, sorretti soltanto dalle tubazioni di scarico. Il corridoio fa una curva secca, poi ancora un'altra. Se non ricordo male dovremmo essere vicini agli alloggi dell'Ammiraglio. Infatti, eccoci alla sua dispensa. Una rastrelliera in legno raccoglie ancora in bell'ordine decine e decine di stoviglie di porcellana bianca. I piatti portano impresso il fregio dell'Ammiraglio. Sono decine e decine, con tazze, vassoi e zuppiere. La tentazione sarebbe di portarne uno in superficie, ma abbiamo ben chiaro che non se ne parla nemmeno.

Ci siamo soffermati in questo punto piu a lungo che in altri, ed abbiamo anche smosso le suppellettili. Una fitta nevicata rossa ci avvolge, è ora di uscire. Torniamo all'esterno e scendiamo di nuovo nell'elevatore di prua, o forse è una stiva. Entriamo in un pertugio e saliamo due rampe di scale, entriamo nella sala radio. Le apparecchiature sono ancora al loro posto, pressochè intatte. Si notano le radio, i transistors, una intera parete di strumentazione. La stanza è molto piccola.

E' un attimo, siamo completamente al buio, la neve rossa ci avvolge. Le torce fanno lo stesso effetto degli abbaglianti nella nebbia. Con calma spengiamo le luci, attendiamo un attimo per abituare gli occhi all'oscurità, poi delicatamente ci muoviamo verso il chiarore della luce esterna che ci indica la via d'uscita. Sensazione mai provata prima, interessante. Il tempo è passato veloce, saliamo verso la torre. Spendiamo gli ultimi minuti facendo un giro in plancia di comando. Gli oblò di combattimento alzati lasciano filtrare sottili raggi di un azzurro pazzesco.

Siamo molto vicini alla superficie, ed il contrasto fra la luce esterna ed il buio della plancia è straordinario. Un tavolo da carteggio con la sua squadra, gli strumenti, i misuratori, i manometri. Fatta eccezione per la grande bussola, tutto il resto è intatto. Anche questa decompressione fugge via veloce. Approfittiamo dell'oretta che dobbiamo stare attaccati sotto alla barca per pulirci a vicenda. Siamo letteralmente pieni di particelle di ruggine, si sono infilate dappertutto. E' divertente, sembra un lavoro da pesce pulitore. Una leggera nuvola rossa ci aleggia intorno, fatta scivolare via da una lieve corrente.


HJMS Nagato.
Il nome evoca tragiche battaglie.

Era l'Ammiraglia della flotta Giapponese che al comando dell'Ammiraglio Isoroku Yamamoto guidò la flotta Imperiale all'attacco di Pearl Harbour. Le foto d'epoca la ritraggono maestosa, la torre altissima. Un mostro di acciao da oltre 42.000 tonnellate, armato come una fortezza, capace di raggiungere i 25 nodi di velocità, lunga piu di 210 metri. A vederla oggi, su di un fondale di una cinquantina di metri, capovolta sulle gigantesche torrette da cui fuoriescono i poderosi cannoni, fà uno strano effetto. Immergersi su di un relitto capovolto fa sempre uno strano effetto. Farlo su uno grande come un isolato, vi assicuro, lo fa sembrare quasi irreale.

Niente è al suo posto, tutto è sottosopra. I soffitti sono i pavimenti, le scale vanno al contrario. Il nostro cervello, con i suoi schemi precostituiti, fatica a dare razionalità a quello che l'occhio registra.Il risultato è un senso di apparente disorientamento nel muoversi e nel riconoscere le cose. Oggi siamo con Fabio, anche lui con la sua telecamera. Mi dilungo un attimo per inquadrare le infrastrutture dell'altissima torre di camando, ora rovinata di fianco allo scafo. Basta un secondo e perdiamo il contatto con Fabio.

Vediamo una luce sparire sotto lo scafo, ci dirigiamo verso di essa, ma uno squaletto che ci taglia la strada ci distrae ancora una volta. Un enorme boccaporto si apre sopra di noi. Sicuramente sono passati da qui. Uno sguardo a Lorenzo e decidiamo di non entrare. Sarebbe bello, ma non conosciamo la strada, e perdersi dentro una corazzata non ci sembra un idea brillante. Risaliamo lungo la fiancata, verso la luce della superficie.

E' qui che ad un certo punto una grande ombra attrae la nostra attenzione. Si tratta della pala del timone, grande come un palazzo. Pinneggiamo verso di essa ed ecco apparire una delle eliche, poi un'altra e un'altra ancora ed ancora l'ultima. Quattro gigantesche eliche, stanno lì capovolte. Una volta facevano volare sull'acqua questo enorme scafo, oggi ci fanno giocare con i loro controluce. La sagoma di Lorenzo vicino all'elica rende l'idea della grandezza di questi manufatti. Nella seconda immersione sulla Nagato, faremo la parte di prora. Altre emozioni.

La prua si stacca dal fondo di cinque-sei metri, dall'alto cadono e si perdono nella sabbia del fondo due enormi catene. Da qualche parte ci saranno le ancore. In controluce due lunghissimi affusti di cannone. L'ogiva potrebbe comodamente contenere un palo della luce, numerosi coralli ornano le bocche da fuoco. Indugiamo un poco razzolando nella sabbia di fronte alla prua. Le grandi navi della flotta Imperiale, portavano sulla prua un crisantemo in argento con undici petali. La Nagato, in quanto Ammiraglia, ne portava uno con tredici foglie, ed era in oro massiccio.
La storia vuole che la sua fine sia sconosciuta.
 
Terza in classifica, l'immersione sull' USS LAMSON DD-367 . Lungo poco piu di un centinaio di metri, questo relitto mostra tutta la potenza distruttiva della bomba. Giace su di un fondale roccioso, sensibilmente distrutto in alcune sue parti, quasi intatto in altre.

Siamo sui 45 metri, una nuvola di cernie residenti popola le lamiere del relitto. Verso poppa ci sono ancora le bombe di profondità, al loro posto nei lanciatori. Durante il briefing ci era stato detto di fare particolare attenzione a non toccare le bombe, soprattutto perchè sono nel loro elemento.

Piu avanti verso il cassero centrale, alcuni tubi lanciasiluri. Due portano ancora le torpedini intatte. Ci sono numerosi boccaporti aperti e la nostra guida approfitta della sua taglia da snautzer per intrufolarsi in uno di essi. Provo a seguirlo, ma la mia taglia non è la stessa e mi devo accontentare di affacciarmi per fare alcuni scatti. Un disordine assoluto regna sul relitto, lamiere divelte e manufatti distrutti ovunque. Ci torneremo una seconda volta e troveremo una visibilità di oltre 30 metri contro i 10 di oggi. Una stupenda tartaruga ci accompagna verso la cima di risalita. 
 
L'USS Anderson DD-411 .
L'Anderson è una delle poche navi affondate nella prima esplosione, quella della bomba Able. Lungo sui 110 metri, giace a 53 metri adagiato su di una fiancata. La visibilità è splendida e la sagoma del caccia si vede benissimo anche dalla superficie. Una volta in acqua si distingue chiaramente in ogni sua forma. Questo vascello ha una storia interessante. Nella sua carriera ha fatto da scorta alle piu importanti portaerei, rimanendo coinvolto in numerose battaglie aereonavali senza però esser mai colpito, anzi traendo in salvo gli uomini delle altre unità colpite attorno a lui. Era per questo ritenuta un unità fortunata. Probabilmente la realtà è che durante i vari attacchi i bersagli piu interessanti erano le grandi unità a cui faceva da scorta, e che si attiravano tutto il fuoco nemico.

Ha comunque tratto in salvo dalle acque durante la sua lunga carriera oltre 1200 marinai, amici e nemici. La nave è perfettamente conservata, probabilmente affondata da una delle onde provocata dalla bomba. Le eliche sono intatte, con vicino un lungo siluro caduto dal ponte. Decine di cernie nere popolano il fondo di sabbia bianca vicino al relitto e si sparpagliano al nostro arrivo, come topi in fuga da tutte le parti. Divertente. Era una nave armatissima, e tutto è ancora al suo posto. Una bella sedia a sdraio è poggiata sulla sabbia, un water poco piu in là. Ci sono centinaia e centinaia di oggetti sparpagliati sul fondo accanto al relitto. Farebbero la gioia di qualsiasi subacqueo.

L'USS Carslile AA-69 . Nave mercantile, 140 metri di lunghezza, 52 metri di fondo. Era una nave che trasportava rifornimenti vari. Ci sono montagne di proiettili di ogni tipo, sparpagliati ed in alcune ceste. Un disordine già visto su altre navi vicine. Una seggetta spicca incastrata fra alcune lamiere, decine di eliche e di pezzi di ricambio lì vicini. Alcuni squali gironzolano nelle vicinanze mentre una nuvola di pescetti avvolge il relitto.

La Corazzata Arkansas, un altro mostro di acciaio di oltre 29.000 tonnellate. Se non fosse capovolta probabilmente sarebbe una delle immersioni piu interessanti. Purtroppo la sua posizione impedisce di godere delle sue strutture. Alcuni grandissimi cannoni fuoriescono da sotto lo scafo di oltre 180 metri di lunghezza. Molto danneggiata.
 
L'Apogon è senza dubbio il piu fotogenico dei relitti della laguna. Eric Hanauer ci ha regalato foto oramai famose del suo cannoncino prodiero. In effetti le condizioni di luce e l'ottima visibilità di questo tratto della laguna fanno apparire il pur modesto scafo del sommergibile come avvolto da un alone particolare. Un siluro è ancora nel suo tubo lanciasiluri, l'oblò aperto come pronto al lancio. Il sistema di puntamento ottico del cannone prodiero è praticamente intatto, gli oculari in puro lattice sono ancora flessibili.

Lo snorkel è ben conservato, vicino alla torretta quasi intatta. 50 metri di fondo, l'ultima immersione che abbiamo fatto a Bikini, con grande gioia dell'Aladin di Lorenzo che per l'occasione si è accumulato una deco che sul display segnava la cifra 99, ma che tale è rimasta per oltre mezz'ora J.

Abbiamo terminato le nostre operazioni subacquee nella convinzione che di li a due giorni saremmo partiti in aereo, e considerate le lunghe decompressioni abbiamo preferito porre un riposo di almeno 48 ore prima di cominciare la lunga serie di ore di volo previste. Purtroppo l'arrivo del promesso aereo è stato posticipato di altri due giorni, avvertendoci di ora in ora e privandoci della possibilità di fare almeno altre quattro immersioni. L'aereoporto di Bikini è su di un atollo a circa mezz'ora di barca dal resort. Lo vediamo oggi per la prima volta, dato che l'andata l'abbiamo fatta con l'Emerald. La barca attracca ad un moletto in cemento, un ampio spazio antistante è occupato da una gigantesca gru.

Completamente corrosa dalla ruggine e dalle intemperie. Ci spiegano che fino a due anni prima serviva ad alare le barche, poi un giorno si è guastata e non è mai stata riparata. La grande scritta Caterpillar appare sotto alla ruggine, un mostro da alcune centinaia di milioni lasciato a distruggersi per mancanza di semplice manutenzione. In questa ottica, quanto a noi occorso sulla barca trova quasi una spiegazione tecnica. Arriveremo a Majuro nel primo pomeriggio. La ragazza dell'albergo ci attende all'aereoporto e si dice molto dispiaciuta a nome della sua compagnia (che è la stessa che ha organizzato tutto) di quanto accaduto. Le chiediamo di fermarsi lungo la strada, all'ufficio della Sea Patrol Australiana. La vediamo sorpresa e preoccupata, e la cosa non ci dispiace affatto.

L'uffico della Sea Patrol è un semplice prefabbricato a due piani vicino ad uno dei moli del porto di Majuro. Un infinito cimitero di barche e navi, corrose dal tempo come la gru dell'aeroporto di Bikini. Saliamo le scale e chiediamo di poter parlare con il Comandante. Un militare Australiano ci guarda diffidente, come a chiedersi chi siamo. Appena gli spieghiamo chi siamo scompare subito dietro ad una porta. Passa un secondo e la stessa porta si riapre, il Comandante ci accoglie calorosamente e ci invita ad accomodarci. Il suo occhio cade sulla mia maglietta con la scritta ''Marina Militare Italiana, Amerigo Vespucci, Nave Scuola''. Conosce i fatti e ci chiede come può aiutarci. Gli raccontiamo per filo e per segno tutto quello che era accaduto sull'Emerald, e non possiamo notare come egli rimanga colpito dal nostro racconto.

Ci porta nella vicina sala radio e ci mostra alcune carte. Indica un punto e ci mostra dove il nostro equipaggio diceva di essere al momento in cui lanciarono il primo allarme. In realtà, da loro accertamenti, la nostra posizione era errata di alcune decine di miglia, e ci mostra dove fossimo in realtà. Prosegue tracciando la nostra rotta alla deriva nei flutti, fino al momento in cui abbiamo buttato in acqua l'Epirb.


Poi mostrandoci la posizione dell'Epirb a quel momento, fuori dalla carta nautica, in corrente verso le coste del Giappone. E' con profondo rammarico che si scusa per non averci potuto portare assistenza, e ci spiega il perché. Ci tiene anche a farci sapere che ci dobbiamo considerare molto, ma veramente molto, fortunati per esserne usciti vivi. E detto da lui, conferma la nostra assoluta convinzione. Ci congediamo con la promessa di inviargli un dettagliato rapporto, che egli accluderà alla nostra denuncia. Adesso ci aspettano altri tre giorni di voli, ritardi e coincidenze perse. Ma è poca cosa rispetto al viaggio di andata. Ancora oggi, a raccontare o a scrivere queste cose, la pelle torna ad accapponarsi. L'Emerald ha lasciato dentro di noi una traccia profonda, che chiederà tempo prima di essere dimenticata. Se mai lo potrà essere.

Come tempo richiederà la causa che ci vede impegnati con il tour operator per vedere riconosciuti i nostri piu elementari diritti, incredibilmente da loro negati. Ma questa è un'altra storia.

Torneremo un giorno a Bikini? Oggi spero di si, perché il mio sogno non è stato del tutto realizzato, e tale rimarrà fino al suo completamento.
 
Dedico queste righe a Gary, l'indigeno delle Isole Seychelles. Colui che mi ha iniziato al mondo subacqueo, e che non potrò mai ringraziare abbastanza.