Testo  di
Franco De Lorenzi
“E’ come cercare un ago nel pagliaio!”. Così mi disse, un po’ sconsolata, Elena, la mia compagna, mentre cercavamo il relitto in un lembo di mare senza sapere con esattezza dove guardare.
Avevamo scoperto su questo sito che, nei pressi della costa dell’isola di Cavallo, esiste un relitto poco conosciuto, ma soprattutto un relitto che si trova a poca profondità, l’ideale per fare un’immersione in pieno relax. Peccato che i dati di latitudine e longitudine, qui riferiti, ci avessero portato sulla terra ferma e dire che sono stati forniti loro (i curatori del sito) proprio dalla capitaneria di porto francese…che dire?
In una cartina nautica, però, avevamo visto, in quella zona, la famosa sigla WK, e da buoni osservatori, alla fine, individuammo una chiazza più verdolina di altre, una secca, che forse potrebbe essere quella che si dice abbia causato l’affondamento del Bucador.
Era la giusta traccia da seguire e, così, da lì a poco, trovammo i resti affondati.
Finalmente! Buttammo l’ancora e la boa segnasub, che, il quel punto, è tanto necessaria quanto inutile, dato che i soliti imbecilli muniti di patente nautica vinta nelle patatine, sfrecciano con barche di ogni misura, immancabilmente vicino al punto segnato dal pallone...ma questa è un’altra vecchia storia.
Armate le macchine fotografiche ci caliamo in acqua ed il primo sguardo allo scafo, praticamente distrutto, la dice lunga su quanto deve essere accaduto in quei tragici momenti del 7 febbraio del 1976.
Il Bucador non è quel che si dice un relitto storicamente importante. Era una nave da carico italiana costruita nel 1946 dai cantieri N. V. E.J. Smit & Zoon Scheepswerven, in Olanda, lunga poco più di 51 metri e larga poco più di 8. Era dotata di un motore diesel a 4 tempi, 8 cilindri sempre di costruzione olandese, ed una sola elica.
In un minuto siamo a 11 metri, a poppa, dove la bellissima elica con il timone adagiato su di un fianco, si erge ancora intatta. Attorno c’è molta posidonia ed il contrasto è notevole. La luce è eccezionale e l’acqua è limpidissima: con un solo colpo d’occhio si riesce a leggere tutta la sagoma del relitto.
E così gli “voliamo” sopra.
Una tranquilla pinneggiata dietro l’altra ci permette di percorrere uno scafo ormai completamente sfasciato dal tempo e dalle mareggiate. Non ci sono imponenti prue o fiancate ricoperte da spugne o briozoi, tanto meno stive da visitare. In questa strana e caldissima estate, dove a 15 metri il termometro dice 29°, persino il pesce, che di solito affolla i relitti, sembra scomparso alla ricerca di acque più fresche.
Tuttavia, alcuni scorci di questo relitto valgono l’immersione.
Dopo l’elica si arriva a quel che rimane del ponte di comando e del motore. Qui si è creato una specie di porticato che guarda verso il blu, che è di indubbia suggestione. Peccato il poco pesce che sicuramente con altri climi deve essere molto. All’interno della breccia-porticato si notano manichette e tubi che ancora danno un senso di ordine in mezzo a quel caos. Sono bei particolari per un fotografo e non perdiamo l’occasione per qualche scatto.
Più oltre si pinneggia con facilità, e senza ostacoli di sorta, sulla “pancia” del relitto. Bocchette ed oblo’ occhieggiano in ordine geometrico; ci si aspetterebbe “un qualcosa” per ogni buco, ma così, innaturalmente, non è. Niente gronghi, niente crostacei, persino niente scorfani, solo una piccola timida corvina si fa vedere nel blu per infilarsi, subito dopo, tra i rottami delle stive accartocciate come un wafer.
Già! Le stive…
Queste offrono una bella apertura sul lato sinistro dello scafo, in cui comodamente ci si può infilare senza pericolosi appigli. Una volta dentro le ordinate metalliche creano una specie di sotto tetto con tanto di “veranda” dall’altra parte: uno squarcio che offre un bellissimo colpo d’occhio sul blu intenso. Ancora una volta il grande assente è il pesce che sicuramente, in altri momenti, deve essere molto.
Giungiamo a quanto rimane della prua, un troncone che lascia quasi intuire che ce ne sia un altro da qualche altra parte.
Lì due cime che ricordano altrettante grandi anguille di sabbia, si ergono verso la superficie, ripiegandosi alla fine sotto il peso dei grossi nodi che le concludono.
Tutt’attorno è pieno di pezzi vari, da quelli che sembrano giunti o snodi, a quelli delle ordinate sfondate nell’impatto. La cosa sorprendente è la geometria di quel disastro: un certo inquietante ordine pervade il caos di quel piccolo relitto, eppure la tragedia è chiara.
Nel ritorno da prua a poppa, percorriamo il lato opposto, quello di coperta, per intenderci.
Passiamo in mezzo alla tipica rovina dei relitti, con lamiere contorte ed ordinate protese verso la superficie. Solo nuovamente verso la poppa, la nostra immersione si conclude sul fumaiolo e poi, più in là, su quanto rimane di una passatoia. Attorno si vede di tutto un po’, ma non di grande richiamo.
Un’oretta in relax è passata, senza problemi di corrente, di luminosità o di fuori curva. L’immersione non sarà stata sicuramente di quelle indimenticabili, ma ne è valsa la pena.
C’è la coscienza di avere fatto un relitto a cui pochi si interesserebbero e già questo rende, a suo modo, l’immersione unica.
Riaffioriamo e dalla superficie riguardiamo lo scafo; il Bucador è ancora là e là rimarrà finchè il mare non se lo prenderà tutto.
Così l’ultimo click è nei nostri occhi, un’immagine e un ricordo da aggiungere al bagaglio di emozioni che ogni subacqueo si porta dentro.






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