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Lo scoglio si erge alto sull'acqua, un potente ostacolo che divide in due l'ampio canale dove ancora oggi, come da tempi remotissimi, passano vascelli di tutte le stazze per abbreviare la rotta dalla terraferma verso il mare aperto. È un percorso pericoloso in cui le carte di navigazione moderne indicano secche e bassifondi con fari e segnali.

Ma un tempo non era così e le navi a vela dell'antichità, spinte dai forti venti che soffiano da terra, andavano inesorabilmente a sbattere la loro chiglia sulle trappole mortali. Scapolato, un primo promontorio, basso ed insidioso a poche miglia di distanza, se il pilota al timone era maldestro ad imboccare l'ampio canale, era quasi inevitabile andare a sbattere sulla costa di una piccola isola proprio di fronte e se superata anche questa almeno per un paio di miglia una fila di scogli, acuminati come coltelli, tagliava lo scafo in due facendo naufragare la nave.

Ed è proprio qui che, dopo aver raccolto alcuni indizi, ci siamo diretti, su un
fondale ricoperto di alghe che scivola rapidamente verso il basso per giungere ad un pianoro sabbioso ad una trentina di metri. Proprio sulla parte terminale di questa piccola isola, quando gli ultimi scogli sono già sott'acqua si vedono apparire i primi concreti risultati della nostra ricerca. Ammassi di anfore coprono vaste zone lasciate libere dalle alghe e ad un'analisi più accurata ci accorgiamo che sotto le alghe giace un vasto ammasso di resti. Sono di colli, pance, manici di varie lunghezze, resti frammentati di preziosi contenitori che sembrano essere stati gettati qui come se si trattasse di una discarica. Ma non è così; la nave probabilmente ha sbattuto con la prua o con una fiancata, il grosso del carico si è adagiato rapidamente sul fondo, le sovrastrutture e quanto stava sul ponte è stato spazzato via dalla furia del mare e nei duemila anni successivi il moto ondoso ha sospinto nella sabbia e sotto le pietre tutto il carico della nave.

Il fedele cercametalli, non reagisce. Passa silenzioso sugli ammassi calcificati e rimane inerte. Inutile cercare in quel punto, lo spessore del materiale argilloso è
troppo elevato e l'esperienza mi ha insegnato a cercare negli anfratti più lontani ed inusuali dove le correnti infilano anche gli oggetti più piccoli.
Nulla. Prima controcorrente, poi a favore sorvolo fino ad una profondità di
quindici metri tutto il tratto di scogliera, ma nelle cuffie sento solo il rimbombo delle bolle del mio scarico. Data la grandezza dei colli e la lunghezza dei manici si può pensare che le anfore siano di età Repubblicana, adatte al trasporto di prodotti commestibili e la grossa nave ne doveva trasportare qualche centinaio. Questo relitto, per altro di scarso valore, è oramai un grosso agglomerato e se qualcosa esiste di valore storico o archeologico è sotto alla base dell'intero carico, punto in cui si può forse trovare vasellame ancora integro. Seguendo un'immaginaria direzione della burrasca supero la barriera di scogli e scendo verso l'altra china. Alghe a profusione su un fondale che declina dolcemente per un lungo tratto prima di raggiungere i cinquantacinque metri. Il Garrett è sempre silenzioso e fa udire il suo fischio solo quando non mantengo la quota perché sente la variazione di salinità nell'acqua.

Faccio scorrere il piatto anche nei piccoli avvallamenti, nelle crepe o nelle fratture della roccia ma il suo ago, che interrogo spesso facendogli scorrere davanti la lama del coltello, non si sposta. Il tempo passa, la corrente spinge di più, la marea sta salendo; o si sta defilati sotto l'ombra della scogliera o si rischia di esser traspostati troppo lontano. Un fischio in cuffia mi risveglia. Troppo inaspettato. Mi prende all'improvviso, torno indietro, mi scompongo, la corrente mi spinge via, perdo il punto. Forse l'ho sognato, penso, ma improvviso si rifà vivo. Smuovo gli avanzi di anfore e quella che "suona" è un grosso ammasso di spugna rossastra. È bastato pulirlo delicatamente perché apparisse una forma nota, quella di un martello metallico saldamente attaccato ad un grosso frammento di anfora. Il suo manico è un cilindro di metallo sfilacciato e la testa è integra solo nella parte esterna, mentre l'interno è completamente consunto.

Il mio compagno di immersione mi fa segno di buttarlo, convinto di aver capito che quello è un arnese lasciato dagli ultimi tombaroli ma al contrario ho capito che quello invece era un attrezzo del carpentiere di bordo. Un oggetto poco importante, ma di grande valore storico, che è la prima volta che mi capita di trovare e vedere ed uguale in disegno e forma a molti altri che avevo trovati incisi sulle tombe dei fabbri romani. Pochi minuti dopo, a breve distanza, il Garrett suona nuovamente; questa volta è una grossa goccia di piombo attaccato ad una striscia di metallo che ferro non è mistero.

Questo non appartiene alla nave romana di certo e da queste parti ci deve essere qualcosa d'altro. Chissà come mai non le avevo viste prima! Mi accorgo ora che appena superata la barriera di scogli sono passato sopra a quel cumulo di pietre tonde che con il loro biancheggiare hanno attirato solo adesso la mia attenzione. Hanno la dimensione di un pallone e formano un grosso cumulo in un avvallamento della roccia. Sono quasi pulite segno che qui la corrente fa un lavoro discreto durante le ventiquattrore tanto che non vi lascia crescere nulla. Non sono recenti perché nessuno trasporterebbe pietre tonde e di certo nessuno sarebbe stato così pazzo da venire a scaricare delle pietre tonde proprio qui, su queste lame di coltello. Ma sì, pensai, è zavorra. La zavorra di un vascello cinquecentesco naufragato a soli pochi metri da una nave romana.

Le pietre tonde sono solitamente di fiume. Venivano raccolte proprio per le loro dimensioni e peso perché si adattavano alla bisogna. Il Garrett suona e dalla buca tiro fuori una grossa concrezione. Con un colpo secco di coltello diventa un cilindro di metallo neppure troppo corroso, con un'estremità ad anello e filettato dall'altra. A poca distanza le due navi di due epoche distanti, ma che hanno terminato la loro vita nello stesso modo e nello punto. Chissà da dove venivano e dove andavano! Ci spostiamo due miglia più a sud. Siamo a
non più di venti metri dalla parete rocciosa di un'altra piccola isola disabitata e
l'ecoscandaglio segnala un fondale verticale che tocca i trentasei metri sulla sabbia per proseguire in pendenza oltre i cinquanta. Andiamo giù sfiorando la parte gibbosa, alla base, in basso per osservare cosa ci viene incontro. La luce estiva si affievolisce e sulla sabbia tutto è evanescente e freddo. Non un'anima. Ho una sensazione di insicurezza, quasi di paura, eppure i due strumenti che porto appreso mi danno la medesima profondità: -36.

L'acqua è scura, la trasparenza velata, quello che vedo mi appare distorto, sento la mano che stringe troppo forte l'impugnatura del metal detector. Comincio a far scorrere il piatto sulla sabbia coprendo il mio percorso a zig zag, ma nulla si cela sotto la coltre che si solleva al passaggio. Poi finalmente un suono prolungato che cerco di tenere centrato mentre proseguo. Come un verme si allunga sotto la sabbia. È una catena concretizzata che mi porta davanti ad una grande ancora ammiraglia, alta più di due metri, piantata nella sabbia. Più in là un altro spezzone ferroso esce dalla sabbia ed appare nella luce incerta di questo fondale. Come attratto da una voce mi giro di scatto e guardo verso il declivio stringendo gli occhi. Ci sono quattro strisce scure, allineate. Sembrano pietre, ma non possono mentire al mio Garrett, che scopre quattro grossi cannoni ferrosi di forma e dimensioni medioevali.

Controllo ancora le culatte e le bocche da fuoco; sono enormi, bitorzoluti e la punta del coltello non li scalfisce. Ma che ci fanno qui? Due ancore e quattro cannoni potrebbero fare una nave, ma sono poche le bocche da fuoco vista la dimensione dell'ancora, che fa pensare ad una stazza di un certo tipo. Un frammento di pentola, oggetto comune di bordo, conferma l'esistenza del relitto. È annerito e sotto i polpastrelli rilascia una materia che appare ancora fresca, oleosa. Rivelerà, portato a terra, di avere un pesante residuo di fuliggine sulle sue pareti lucide e di avere ancora un forte odore di zolfo, tipico della polvere da sparo. La nave è morta in battaglia, colpita dalle bocche nemiche, oppure ha preso fuoco durante un fortunale. Allargo il giro, scendo verso il declivio, verso tramontana, il vento predominante, seguendo un'ipotetica rotta. La luce che filtra dalla superficie si affievolisce ancora di più, sono privo di punti di riferimento, ho paura ad andare avanti su questa lastra di sabbia cerulea e così priva di qualunque segno di vita. Questo luogo ha qualcosa di spettrale, di angosciante, di tetro. Malgrado abbia effettuato centinaia di immersioni, anche nei posti più impensabili, questa è la prima volta che ho la netta sensazione di dover abbandonare un luogo. Chissà perché, ma questo è pervaso da una insolita tristezza che nel mare non esiste, perché il mare è vita, ricchezza, lotta per la sopravvivenza, colore, movimento. Mi fermo ancora titubante e cerco di farmi una ragione per cui qui attorno non c'è assolutamente nulla. Dalla forma dei cannoni, a grandi linee, si può presumere che il relitto sia di una nave in attività tra il XV ed il XVIII secolo ed i cannoni in ferro sono stati costruiti ai primi anni del 1600. Prima si usava solo il bronzo. Potrebbe essere una galera veneta, ma queste navi portavano fino a quaranta cannoni. E se fosse una nave francese a chiglia tonda? Anch'essa era armata con moltissimi pezzi.

Ma qui navigavano spagnoli, turchi e popolazioni costiere che facevano la guerra a tutti pur di arraffare o difendersi. Potrebbe essere una di tutte queste, ma gli indizi sono troppo pochi e se non si trova null'altro è raticamente impossibile darle una provenienza. A questa profondità la sabbia non ricopre più, la corrente è debole e sposta solo i frammenti più leggeri, molto può essersi insabbiato cadendo da circa quaranta metri, ma molto deve per forza essere rimasto scoperto. Penso questo mentre mi avventuro nello spazio vuoto, galleggiando a mezz'acqua, per avere una visione panoramica
di quel che sorvolo. Ogni tanto tocco il fondo, muovo il disco del cercametalli che però non invia nessun segnale. Ho superato abbondantemente i -40 e la profondità continua ad aumentare mentre devio cercando di tenermi parallelo alla zigrinatura della sabbia che indica la posizione della costa. Ora sarò a più di cento metri dal punto e se la nave fosse colata a picco da queste parti, vista la posizione delle due ancore, ci sarebbero segnali precisi. E invece il panorama è vuoto, muto. Neppure un'alga, neppure il più piccolo pesce.

Solo un'impressionante grigiore che rende dura e opprimente l'aria che raschia
nell'erogatore, come se la profondità fosse doppia di quel che in effetti è. Ci sono luoghi un po' ovunque che incutono paura o terrore e questo è uno di quelli, forse perché vi si è consumata una tragedia del mare. Mi piacerebbe scoprirla, mi piacerebbe indagare, sapere chi erano questi marinai che per l'ultima volta hanno maneggiato ancora e catene prima che queste finissero sul fondo o chi era colui che prese per le mani quella pentola di argilla annerita dallo zolfo. Rimarrà un mistero. Riprendo lentamente la via del ritorno, la luce ritorna ad essere più vivida, ho un senso di sollievo e non sento più l'oppressione che prima mi assillava. Che qualcuno abbia smesso di osservarmi? Non lo so, so solo che ora mi sento meglio e la mia immersione ha il ritmo di sempre. Il mio compagno d'avventura mi viene incontro e mi fa cenni che non comprendo, poi sulla lavagna mi appunta che è risalito perché non si sentiva tranquillo. E lui, pensate, ha il doppio della mia esperienza.